storia della cucina vercellese

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Giacomo Grasso Storia della cucina Vercellese

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Libro sulla storia della cucina vercellese

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Page 1: Storia della cucina vercellese

Giacomo Grasso

Storia della

cucina Vercellese

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In copertina: Gennaio 1942. Cenone del maiale, una delle più alte espressioni della cucina tipica vercellese (disegno di Federico Bollo).

Page 3: Storia della cucina vercellese

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L’Autore ringrazia per il patrocinio, il sostegno e l’ospitalità concessi a questa pubblicazione:

- Amministrazione Comunale di Borgovercelli,

nella persona del Sindaco, dott. Franco Filice

- Pro Loco di Borgovercelli

- SOMS di Borgovercelli

Agli «Amici della panissa» di Albano V.se un sentito grazie per la sontuosa panissa preparata e

off erta in occasione della presentazione del libro.

Borgovercelli, 27 novembre 2010

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Finito di stampare nel mese di Novembre 2010.

Tutti i diritti sono riservati a Paolo Saviolo.

Nessuna parte del libro può essere riprodotta in alcuna forma di stampa e/o con mezzi digitali e/o elettronici (incluse fotocopie, registrazioni o recupero e immagazzinaggio di informazioni), senza il consenso scritto dell’editore.

SAVIOLOEDIZIONI

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Giacomo Grasso

Storia della

cucina Vercellese

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PRESENTAZIONE

La cucina vercellese, semplice ma saporita, raggiunge l’apice tra le

sue preparazioni con la panissa: gustosa e accattivante, di una certa

struttura e robustezza, in un esaltante insieme gustativo e olfattivo.

Essa non trova riscontro in tutto lo scibile gastronomico nazionale e

internazionale.

Il suo sapore ha quasi del magico, che ti attira e ti avvolge.

Il vino giusto che viene abbinato esalta il tutto in un piacere suadente.

Giacomo Grasso

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PRESENTAZIONE

Molti di noi Vercellesi - forse la maggior parte di noi, compresi quelli

che vivono nella città - se solo risalgono di un paio di generazioni il

“bacino idrografi co” della loro genealogia familiare, possono trovare l’im-

pronta di una matrice terragna, contadina, stampata nel loro DNA sociale

e culturale. Molti di noi - forse ciascuno - può, con l’aiuto di qualche foto-

grafi a un po’ ingiallita o della rimembranza di qualche superstite testimo-

ne familiare, conteggiare qualche ampio segmento cronologico di “gente

mia campagnola”, come diceva Giuseppe Ungaretti per la sua radice fami-

liare, antica “duemill’anni forse” sulla terra bagnata dal Serchio …

E’ questa la ragione che mi fa raccomandare ai Vercellesi, nativi o di ado-

zione, la lettura di questo prezioso e “saporoso” libro di Giacomo Grasso.

E’ questa la ragione che mi fa credere con convinzione che la sua lettura

gli darà il successo che merita per un valore aggiunto, in cui credo consista

la motivazione più profonda della sua genesi.

Questa “Storia della Cucina Vercellese”, infatti, non nasce soltanto da una

ricerca curiosa, appassionata, intensamente e a lungo meditata e ripensa-

ta, sul percorso - storicamente intermittente nelle fonti scritte - di una civil-

tà del cibo e di una “cucina del territorio”; essa nasce anche e soprattutto,

a mio avviso, da un’istanza socio-culturale e sentimentale più intima ma

non meno scoperta: quella di conservare in vita sentori e sapori di una “ci-

viltà contadina” da preservare, sì, dall’ineducazione alimentare dilagante

con le mode esterofi le e spersonalizzanti, ma ancor più dall’azione ostile

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che il tempo esercita su quello che Giacomo chiama, suggestivamente, “il

profumo della memoria”. C’è qualcosa di ruvidamente agonistico, più che

di morbidamente nostalgico, in questo impegno di Grasso, speso a ga-

rantire alla nostra civiltà, alla nostra identità culturale, espressa in cucina

e sul desco di famiglia, un pieno diritto di cittadinanza nel nostro presen-

te, fatalmente “meticcio” per tante e dopo tante stratifi cazioni, incursio-

ni, scorribande eterogenee. Anche dalla prospettiva della cucina, anche

dall’esalare fumigante di pignatte e pentole, c’è una possibilità di tentare

di cogliere qualche versante del “senso della Storia” (se non si nutrono

schizzinosi pregiudizi per la cosiddetta “cultura materiale”) …

Questo è in fondo, anche e soprattutto, il senso vero dell’impegno che

Giacomo Grasso mette nel tentativo di salvare la coltura del fagiolo “scoz-

zese gigante” di Villata, con altri benemeriti amici del paese; o nell’azione

diplomatica, ostinata, defatigante e diffi cile, svolta fra gli “addetti ai lavo-

ri” e le istituzioni locali, nel tentativo di mettere a punto il “canone” della

ricetta autentica della panissa (o, almeno, degli ingredienti unanimemen-

te condivisi): c’è amore per la vicenda storica di questa civiltà, che è fatta

di gesti e riti di campagna e di cascina, di parole e simboli, di “profumi

della memoria”, appunto, da comunicare e tramandare; perché il senso di

quella storia non vada disperso.

Non a caso Giacomo Grasso si è interessato, di recente1, alla lingua dia-

lettale ed al lessico di una nostra area linguistica ben individuata, la

1 GIACOMO GRASSO, Dalla lingua piemontese una variante di dialetto locale,

Vercelli (2009).

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“bassa Baraggia”; lo ha mosso, quasi certamente, lo stesso movente di

questa sua nuova fatica compositiva, quello di indagare e salvaguardare

un frammento della nostra identità antropologica e culturale.

Anche questa “Storia della Cucina Vercellese” va letta - questo raccoman-

do a tutti coloro cui verrà tra le mani - tenendo conto di questo movente

sentimentale e “civico” insieme, che forse vale quanto la competenza tec-

nica e scientifi ca dello “specifi co culinario” che il libro pure mette in luce.

Se sapremo metterci in questa disposizione d’animo, dal racconto di que-

sta Storia e di queste “storie” è possibile che raccogliamo anche noi, come

è successo a me, profumi di una nostra personale memoria della cucina di

casa, di pranzi fra parenti, di climi e atmosfere miracolosamente restituite

al cuore. E scopriremo di essere anche noi partecipi di quel patrimonio col-

lettivo di saperi e sapori, esperienze e valori che il libro di Giacomo Grasso

ci aiuta a ritrovare. E ci riconosceremo in esso, come in uno specchio nep-

pure troppo appannato.

Angelo Fragonara

Novembre 2010

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PRESENTAZIONE

Sono legato a Giacomo Grasso da un’amicizia ultratrentennale,

caratterizzata anche da comuni e condivise scelte di campo e da un

costante impegno in difesa delle nostre radici più autentiche e positive.

Ho quindi avuto il privilegio di seguire, fi n dall’inizio, il lungo e appassionato

percorso di ricerche e di approfondimenti confl uiti oggi in questa “Storia

della cucina vercellese”.

Ma il titolo mi sembra riduttivo in quanto il libro va ben al di là di una

storia, ancorché meritevole, della cucina del nostro territorio e delinea

con mano sicura e con una scrittura chiara e accattivante un quadro

sintetico ma esauriente della civiltà contadina vercellese e dei suoi aspetti

antropologici più rilevanti e caratteristici.

Frutto anche di nostre lunghe conversazioni sull’argomento, il libro mi

ha coinvolto sempre e addirittura commosso in alcune parti, certamente

anche in considerazione della mia appartenenza al mondo contadino e

al fatto di essere e di sentirmi, culturalmente, professionalmente ed

emotivamente, “contadino” io stesso.

Accurate e scientifi camente ineccepibili le pagine che Giacomo Grasso

dedica al soggiorno a Borgovercelli di Torquato Tasso; motivate e

convincenti le argomentazioni in difesa dell’ortodossia della panissa tipica

vercellese, per fi ssarne almeno gli ingredienti base se non la preparazione;

vivacissime e precise le notizie sulla macellazione del maiale e sulla sua

importanza nell’economia domestica del mondo contadino.

Page 14: Storia della cucina vercellese

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Ma la parte del libro che più mi ha coinvolto, e che tratta argomenti poco

aff rontati in maniera così analitica e documentata, è quella dedicata alla

cucina povera, ai suoi ingredienti, alla cattura dei pesci e dei passeri, alle

ricette che Giacomo Grasso, con espressione felicissima, defi nisce “piatti

dal profumo e dal sapore della memoria”.

Mi auguro pertanto che questa “Storia della cucina vercellese” abbia la

diff usione e il successo che merita e che, se nelle persone non più giovani

farà rivivere atmosfere e ricordi della loro infanzia e giovinezza, possa

aiutare tutti a non dimenticare le nostre radici culturali non per crogiolarci

in una sterile nostalgia del passato, ma per ricordarci che il futuro, un

futuro vero, ricco di valori e di prospettive, ha sempre, come scriveva

Carlo Levi, “un cuore antico”.

Gianni Mentigazzi

Novembre 2010

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LE ORIGINI DI VERCELLI

Indicazioni e riscontri storici abbastanza attendibili sulle antiche origini

di Vercelli chiamano in causa quello che era il popolo dominante in Europa

nei due millenni prima di Cristo e dell’Impero Romano: i Celti.

Quello dei Celti fu il primo popolo agli albori della storia che abbia ac-

quisito una propria identità nell’Europa centrale.

Erano un insieme di popolazioni di diverse origini, ma caratterizzati da

affi nità culturali e linguistiche. Ritrovamenti archeologici recenti attesta-

no la presenza del primo nucleo di Celti nella valle del Rodano duemila

anni prima di Cristo.

La loro civiltà millenaria si espanse dall’Europa centrale fi no alla Spagna

e al Portogallo; a nord della Francia, in Scozia e Irlanda. Si spinsero nei Bal-

cani e nell’ Asia Minore.

Verso il V secolo a.C. iniziarono le loro infi ltrazioni verso la Valle Padana.

I Romani, che li consideravano ovviamente dei barbari, li chiamavano

Galli e così defi nivano Gallia Cisalpina l’area che comprendeva all’incirca

l’attuale Piemonte e parte della Lombardia; Gallia Transalpina la regione

dell’attuale Savoia.

In una recentissima pubblicazione, Vercelli e Provincia – un mosaico d’ar-

te, cultura e suggestione, edito da Whitelight, Matteo Varia traccia un qua-

dro completo e circostanziato della presenza dei Celti nel nostro territo-

rio, dove si sviluppò Wher – Celt (rocca dei Celti, Vercellae) qualche secolo

prima dell’arrivo dei Romani.

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Secondo Matteo Varia i Celti, entrati dal Brennero, dopo aver percorso

la Pianura Padana, seguendo poi il corso del fi ume Sesia, incontrarono una

città interamente costruita in legno (tratto dai boschi circostanti) e pietre

(tratte dal greto del fi ume Sesia).

Era la città abitata dai Libici (o Liguri) e fondata dai Salassi, o Salii, qual-

che secolo prima.

Secondo Adriano Pennacini i Salassi, o Salii, erano un popolo che abita-

va l’attuale Canavese, tra i Libici di Vercelli e i Taurini di Torino.

I Celti, quindi, dopo un duro scontro con i Libici, occuparono quell’ag-

glomerato di case di legno e pietre.

Così Wher – Celt (rocca dei Celti, dopo la sua occupazione) troverà,

con la zona circostante, uno sviluppo impostato sulla creazione di villaggi

agresti e piccoli centri fortifi cati.

La proprietà terriera è caratterizzata da piccoli appezzamenti messi a

coltura. Il bosco circostante era un bene comune, che veniva usato, oltre

che per il legname, anche per la caccia e l’allevamento di maiali e ovini. I

Celti furono vinti nel 143 a.C. dai Romani, che occuparono la Gallia Cisalpi-

na e nel 100 a.C. fondarono la colonia di Eporedia (Ivrea); nel 25 a.C. quella

di Augusta Pretoria (Aosta). A questo punto Wher – Celt diventò Vercellae

e l’equilibrio tra esigenze della comunità celtica e sfruttamento delle risor-

se cominciò a cambiare.

Trascorso il periodo dell’ Impero romano e giunti all’Alto Medioevo,

Vercelli è ancora una città circondata da estese foreste ricche di cacciagio-

ne, dalla quale le popolazioni di allora trovarono sostentamento, oltre che

dai prodotti dei campi, falcidiati però da frequenti carestie.

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Così divenne abituale il consumo di zuppe, focacce, polente ricavate

dal miscuglio di cereali poveri (sorgo, miglio, farro, panìco), alternati da

prodotti della caccia e dal pescato del fi ume Sesia, ricco di pesce di ogni

tipo. Un fi lm di qualche anno fa (Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno) può

essere considerato uno spaccato, se pur reinventato con qualche licenza,

del nostro mondo contadino nell’Alto Medioevo.

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LA CENA DI TORQUATO TASSO

OSPITE DELLA FAMIGLIA BULGARO

A BORGOVERCELLI

Reputando né anacronistico né inutile riaprire il discorso sul breve sog-

giorno di Torquato Tasso a Borgo Vercelli, datato al lontano settembre

del 1578, ho consultato gli scritti di coloro che tanto impegno profusero in

studi e ricerche sull’argomento, per conoscere l’identità del gentile signo-

re di campagna che ospitò, per una sera e una notte, nella sua dimora il

poeta.* Leggendo Il padre di famiglia, “una delle più luminose e serene

* Per collocare l’evento nel quadro generale della situazione italiana di quegli

anni, va rilevato che l’assetto politico – amministrativo, dopo la pace di Cateau-

Cambrésis del 1559, vede un netto dominio spagnolo, diretto o per infl uenza, in

quasi tutta la penisola.

Ne rimanevano esclusi il Ducato di Savoia, la Repubblica di Venezia, diversi sta-

terelli dell’ Itala centro-settentrionale e lo Stato della Chiesa, che aveva una sua

storica autonomia. Il predominio spagnolo venne facilitato soprattutto dalla

rinuncia da parte della Francia a contendere alla potenza rivale il possesso del

Milanese e del Napoletano.

Questo assetto durerà nelle sue grandi linee fi no all’inizio del 1700. Quando il Tas-

so, parlando del principe Emanuele di Savoia, lo considera “il primo e più valoroso

e glorioso principe d’ Italia”, trae motivo di tanto elogio dalla vittoria che il Duca

aveva ottenuto nel 1557, nella battaglia di S. Quintino, durante la campagna delle

Fiandre. Nel 1545, perso il Ducato occupato dai Francesi, Emanuele Filiberto si ar-

ruolò appena diciassettenne al servizio di Carlo V di Spagna. Nel 1557, al comando

delle sue truppe, con una magistrale impostazione tattico-strategica, sconfi sse i

Francesi coprendosi di gloria e rivelando le sue grandi doti di condottiero.

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pagine di prosa che il Tasso abbia lasciato” (Giulio Cesare Faccio in “Tor-

quato Tasso a Borgo Vercelli”), ho riscontrato una grande competenza del

Tasso nel parlare di vini e cibi: un autentico esperto di enogastronomia, si

direbbe oggi: nozioni e gusti acquisiti sicuramente durante il permanere

presso numerose corti italiane dell’epoca. E’ questo un aspetto che gli stu-

diosi e i ricercatori del secolo scorso non rilevano, semplicemente perché

in quegli anni interessi e culture enogastronomiche erano poco diff use.

Oggi, invece, dedicando la televisione ampio spazio all’argomento, così

come la carta stampata con numerose pubblicazioni specializzate, é vasta

la diff usione di nozioni, ricette e vere lezioni culinarie. E’ davanti agli occhi

di tutti quanta curiosità, interesse, voglia di apprendere sull’argomento

vi sia tra la gente.

Si potrebbe dire che, assieme alla meteorologia, cucina e vini siano oggi

al centro dell’attenzione degli Italiani.

Prima di aff rontare questo specifi co aspetto del racconto del poeta,

voglio avanzare alcune considerazioni più generali, che riguardano coloro

che dedicarono molto tempo in minuziose ricerche per conoscere il nome

del “padre di famiglia” tassiano, nobile Signore del borgo appena aldilà

della sponda sinistra del fi ume Sesia.

Sbarcò poi a Nizza nel 1559, accolto trionfalmente dai maggiorenti di tutto il

Piemonte. In meno di vent’anni fece del Ducato del Piemonte un piccolo Stato

all’avanguardia sotto il profi lo amministrativo, militare ed economico, suscitan-

do l’ammirazione di uomini di governo e ambasciatori dell’epoca.

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Due furono questi studiosi.

Il primo è Alessandro Baudi di Vesme (ora Vesime – AT), più noto sem-

plicemente come Alessandro Vesme, un dotto storico piemontese.

L’altro è il dottor Marco Perosa di Borgo Vercelli “modesto ma chiaro

storico”, come lo defi nisce il professor Giulio Cesare Faccio.

In “Torquato Tasso e il Piemonte” Alessandro Vesme descrive tutti i pas-

saggi della sua minuziosa ricerca.

Il dottor Marco Perosa pubblicherà due libri: il primo dal titolo “Sulla bre-

ve dimora di Torquato Tasso in Borgo Vercelli”, il secondo dal titolo “Bulga-

ro”. Entrambi gli studiosi, all’insaputa l’uno dell’altro, fecero queste ricer-

che tra il 1880 e il 1890.

Prima di quella data nessuno aveva fatto la benché minima indagine in

proposito.

Alessandro Vesme, dopo aver consultato testi dell’epoca, soprattutto

quelli pubblicati da biografi del Tasso, e dopo aver constatato che poco o

nulla era emerso che non fosse già conosciuto dalla lettura del dialogo “Il

padre di famiglia”, si convinse che ne avrebbe saputo molto di più recan-

dosi sul posto e seguendo le indicazioni testuali del poeta.

Così, un giorno di settembre del 1886 il Vesme arriva a Vercelli e

racconta: “uscito dalla porta di Milano mi incamminai tenendo la bella e

spaziosa strada nazionale che corre in linea quasi retta fi no a Novara”.

Attraversato il ponte sul fi ume Sesia, si reca sul luogo che egli ritene-

va essere quello dell’incontro del Tasso con il giovane fi glio del nobile

Signore: si guarda intorno, ma non vede la casa descritta dal poeta, che a

questo proposito scriveva: “egli (riferendosi al giovane cacciatore) la sua

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casa mi additò che dalla ripa del fi ume non era molto lontana ed era di tanta

altezza, che alla vista di fuori si poteva comprendere che più ordini di stanze,

l’una sovra l’altro, contenesse”.

Alessandro Vesme ad un certo punto vede una casa che si eleva sopra

le altre in mezzo a quelle di un villaggio, a discreta distanza, che poteva

essere quella descritta dal Tasso. Questa diff erenza di posizione e localiz-

zazione tra la descrizione fatta dal poeta e quella riscontrata da Alessan-

dro Vesme è dovuta sicuramente al notevole spostamento del corso del

fi ume, che trecento anni prima passava molto più vicino a Borgo Vercelli.

Arrivato davanti alla casa, Alessandro Vesme notò il particolare dell’ac-

cesso ad essa, come descritto dal poeta: “ vi si saliva per una scala doppia,

la quale era fuori dalla porta e dava due salite assai comode per venticinque

gradi larghi, e piacevoli da ciascuna parte”.

Salita la scala ed entrato nelle prima stanza, riconobbe subito quella

descritta dal Tasso:

“salita la scala ci ritrovammo in una sala di forma quasi quadrata e di con-

venevole grandezza: perciocché aveva due appartamenti di stanze a destra

e due altri a sinistra e altrettanti appartamenti che erano nella parte della

casa superiore”.

Dopo averla visitata tutta, accompagnato da un solerte giardiniere, il

Vesme riprese il cammino verso Vercelli, convinto a questo punto che il

nome del padre di famiglia non doveva essere di diffi cile individuazione,

poiché persone esperte e pratiche di cose vercellesi l’avrebbero sicura-

mente aiutato nella sua ricerca.

Si rivolse a Francesco Marocchino, archivista, e al commendator

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Carlo Dionisotti, Consigliere di Cassazione e membro della Deputazione di

Storia Patria. L’inizio di questa ricerca ha però un punto poco chiaro, che

lascia qualche incertezza se ci si soff erma su quanto Alessandro Vesme

scrive dopo il suo ritorno da Borgo Vercelli:

“quando ebbi tutto visitato, ripresi il cammino di Vercelli, lieto della fatta

scoperta. Mi restava bensì ancora a sapere il nome del padre di famiglia, ma

una volta che se n’era nota la casa, non doveva essere malagevole lo scoprirlo.

Ed infatti con l’assistenza di persone perite di cose vercellesi venni poi a

conoscere che la casa da me veduta in Borgo Vercelli apparteneva nei tempi

del Tasso alla famiglia patrizia vercellese degli Ajazza”.

A questo punto è opportuno un inciso: quando Alessandro Vesme nel

suo “Torquato Tasso e il Piemonte” (pag. 54) scrive “con l’assistenza di per-

sone perite di cose vercellesi”, c’è un richiamo in nota a fondo pagina, che

indica l’avv. Francesco Marocchino, archivista della Città di Vercelli, ed il

comm. Dionisotti, Consigliere di Cassazione e membro della Deputazione

di Storia Patria, “ai quali esprimo la mia riconoscenza”.

Il punto che può trarre in inganno è l’indurre che possano essere stati il

Marocchino e il Dionisotti a fare il nome degli Ajazza quali proprietari della

casa del padre di famiglia ai tempi del Tasso. Questa tesi appare poco pro-

babile, per il fatto che Carlo Dionisotti, nelle sue brevi ricerche condotte

personalmente per scoprire il nome del Signore che ospitò il Tasso, lo in-

dividuerà in quello di un Conte Cesare Foppa milanese, che ebbe in Borgo

Vercelli alcune proprietà.

Infi ne, da un’attenta lettura e interpretazione di quanto scrive il Vesme

(“ed infatti, con l’assistenza di persone perite, venni poi a sapere che la casa

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da me veduta in Borgo Vercelli apparteneva…”), è lecito pensare che l’avv.

Marocchino e il comm. Carlo Dionisotti abbiano in realtà messo a disposi-

zione di Alessandro Vesme l’Archivio del Comune, fornendogli anche qual-

che indicazione generica che altri tradussero in notizie fuorvianti per il Ve-

sme, rendendo così erronee nella conclusione le sue minuziose ricerche.

La famiglia patrizia vercellese degli Ajazza (in latino De Agaciis) ha un

blasone che riporta tre gazze in campo oro. Chiara la correlazione tra il

termine dialettale di questo uccello (jàsa) e il nome del casato: non tra le

più antiche, ma tra le più segnalate famiglie aristocratiche, dirà il Vesme,

perché da essa uscirono alti prelati, senatori, ambasciatori, dottori del Col-

legio dei Giureconsulti.

Le lunghe ricerche di Alessandro Vesme lo portarono ad individuare dun-

que il padre di famiglia tassiano nella persona del senatore Niccolò Ajazza

(“essendo la Corte di Appello defi nita Senato, i loro membri assumevano il tito-

lo di Senatori”). Sfortunatamente l’emerito storico piemontese Alessandro

Baudi di Vesme incappò in circostanze e fatti che coincidevano, almeno in

apparenza, con quanto descritto dal poeta nel dialogo “Il padre di famiglia”.

Prima circostanza. L’amore e la competenza in campo agrario ricono-

sciuta dal Tasso al suo gentile ospite coincidono con altrettanta compe-

tenza, dedizione e impegno descritti dal Sen. Nicolò Ajazza nel suo libro:

“Vent’ anni di lavoro agricolo di un uffi ciale di cavalleria”, edito nel 1583.

Val la pena di ricordare un documento che compare in questo libro.

E’ un documento datato 1582, nel quale Nicolò Ajazza chiede al sovrano

l’autorizzazione di ridurre “una notabile quantità di acqua che si perde, a

benefi cio pubblico oltre il suo particolare”.

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Qui, molto probabilmente, il tema è l’irrigazione delle prime risaie (1582,

cento anni circa dopo Lucedio e i suoi monaci Cistercensi). Molta acqua

andava persa probabilmente per cattiva e insuffi ciente canalizzazione.

Il Sen. Ajazza, con alto senso civico, chiede che venga ridotta allo stret-

to necessario la quantità d’acqua per le sue risaie, destinando il surplus ad

usi pubblici.

Il secondo punto coincidente sono i due fi gli maschi del padre di fami-

glia tassiano, così come furono due i fi gli maschi del Sen. Ajazza.

La terza coincidenza è lo stato patrimoniale degli avi di entrambi. Il no-

bile Signore nel dialogo dirà al Tasso che: “il suo avo paterno essendo di

picciol patrimonio erede, con l’industria e con la parsimonia e con tutte l’arti

di lodato padre di famiglia, molto l’accrebbe”.

Così pure l’avo del Sen. Ajazza parlerà della sua situazione patrimoniale

nel suo testamento del 1509, dichiarando di aver creato la fortuna del-

la sua Casa, considerando quanti beni aveva acquisito e aveva ottenuto

dall’umanità e dalla benevolenza di Dio e, chiaramente, per devozione e

per opera di S. Tommaso d’Aquino.

A fronte di queste circostanze concomitanti, ad Alessandro Vesme

sfuggì un particolare decisivo: la famiglia Ajazza non risiedeva a Borgo

Vercelli all’epoca del passaggio di Torquato Tasso (1578), ma solo a partire

dalla seconda metà del 1700.

Veniamo ora all’impegno del professor Marco Perosa di Borgo Vercelli.

Egli, dopo lunghe e accuratissime ricerche, potè dimostrare che il Signore

che ospitò il Tasso era un membro della famiglia Bulgaro, e che la casa

dove fu ospitato il poeta era la parte “vecchia” del castello dei Bulgaro,

Page 26: Storia della cucina vercellese

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“ristrutturato” poco prima dell’arrivo del poeta. Scriveva infatti il Tasso

a proposito della casa: “ella era di nuovo fabbricata…”. Il dottor Perosa,

purtroppo, non potè appurare con esattezza quale fosse il Bulgaro che

ospitò il Tasso, perché si trovò di fronte ad un intricato albero genealogi-

co, che in linea diretta e collaterale presentava innumerevoli nominativi

di Bulgaro. Egli concluderà la sua ricerca con queste parole, che lasciano

trasparire un po’ di amarezza: “devo francamente confessare che dopo tan-

te indagini io mi trovo in dubbiezza maggiore di prima. Basta infatti gettare

uno sguardo all’albero genealogico della famiglia e vedere in quale immensa

quantità di membri si fosse diramata in quel tempo, e cioè intorno al 1578,

per concludere quanto gravi siano le diffi coltà di poter uscire dall’inestrica-

bile labirinto a chi voglia ingolfarvisi. Né possono bastare ragionamenti, né

induzioni per via di esclusione, perché non sappiamo con tutta precisione

quali furono quei membri della famiglia che qui più stabilmente dimoravano,

e solo di tratto in tratto abbiamo notizie su di essi”.

Nel settembre del 1923 il professor Giulio Cesare Faccio, in occasione

della cerimonia per la posa di una lapide a ricordo del breve soggiorno

del poeta, terrà il discorso celebrativo davanti alla casa Bulgaro. La sua è

una chiara e limpida disamina, che percorre i fatti accaduti in quel lontano

settembre 1578 ed illustra con puntualità e precisione le ricerche fatte dai

due emeriti studiosi sopra citati. In quell’occasione il professor Faccio di-

chiara di aver condotto anch’egli delle ricerche presso l’archivio del Comu-

ne di Vercelli, sulla scorta di un albero genealogico della famiglia Bulgaro

pubblicato in quei mesi dal Conte Teodoro Arborio Mella.

Ma le ricerche del professor Faccio non ebbero migliore fortuna di

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quelle del Perosa. Anch’egli si trovò di fronte ad una intricata quantità di

nominativi che resero impossibile l’individuazione precisa e certa del per-

sonaggio che ospitò Torquato Tasso.

Questo suo lungo discorso verrà pubblicato in un opuscolo dal titolo

“Torquato Tasso a Borgo Vercelli”.

Come si è detto sopra, egli defi nisce “Il padre di famiglia” tassiano

“una delle più luminose e serene pagine di prosa che il Tasso abbia lasciato.

Quest’opera altro non è che il racconto genuino della serata passata dal Tas-

so anche se alquanto abbellito forse dai lenocinii dell’arte”.

Al riguardo è opportuno considerare che il dialogo fu scritto da Tasso

nel 1579, durante il suo internamento nell’Ospedale S. Anna di Ferrara, a

causa di disturbi mentali: è lecito quindi pensare che il breve soggiorno a

Borgo Vercelli apparisse nei ricordi “turbati” di Tasso come l’unico (forse)

momento lieto del recente passato; sostanzialmente veritiero, ma certo

anche in parte idealizzato.

Il discorso che avviene a tavola è tutto pervaso di elogi e apprezzamen-

ti nei confronti del padre di famiglia. Tasso elogia la casa per la sua “puli-

tezza” e signorilità, che nulla ha da invidiare a nobili case di città.

Elogia il giardino, l’orto, i campi, riconoscendo al gentile Signore ottime

doti di agricoltore. Fa abbondanti apprezzamenti sulla sua cultura lettera-

ria, quale buon conoscitore di Virgilio e Varrone, autori di poemi e trattati

su tecniche agricole (Georgiche, De re rustica), e Omero.

E al giovane fi glio del nobile Signore, che lo accompagna a controllare

la piena del Sesia e la possibilità di essere traghettato a Vercelli, dirà: “io

non fui mai in questo paese, perciocché altra fi ata (volta) che andando in

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Francia passai per lo Piemonte, non feci questo cammino, ma per quel che a

me paia non ho ora a pentirmi di essere passato perché assai bello è il paese

e da assai cortesi genti abitato”.

Ultima notazione, la più importante, perché centrale a tutto il raccon-

to: quale può essere stato il motivo da parte del Tasso per aver taciuto la

propria identità al suo ospite, e quella del padre di famiglia?

All’inizio del 1579 Torquato Tasso, ospite da quattro mesi di Filippo

d’Este, capitano generale della cavalleria di Emanuele Filiberto e suo ge-

nero, avuta notizia dei grandi festeggiamenti che si stavano preparando

a Ferrara per le nozze tra il Duca Alfonso d’Este e Margherita Gonzaga,

decide di partire improvvisamente da Torino (quelle del Tasso , più che

partenze e viaggi, sono quasi sempre delle fughe). Egli sognava di essere

al centro dell’attenzione a Ferrara; ma non sarà così, perché gli impegni

per i preparativi delle nozze non consentirono al Duca d’Este di occuparsi

di lui e delle sue istanze e suppliche. Questa delusione accentuerà il suo

precario equilibrio psichico. Verrà così rinchiuso sotto stretta sorveglianza

nell’Ospedale di S. Anna, dove rimarrà per sette lunghi anni.

Ed è durante questa prigione – ricovero che scriverà “Il padre di

famiglia”.

E’ possibile perciò cheTasso non scriva il nome del gentile Signore che

lo ospitò, forse per averlo dimenticato, vista la sua condizione psichica.

Il giovane cacciatore (fi glio del nobile Signore), mentre lo accompagna

a controllare lo stato del fi ume, punto dalla curiosità, rivolgendosi al fore-

stiero appena giunto in quel luogo, gli chiede: “Ditemi, di grazia, chi siete,

e di qual patria, e qual fortuna in queste parti vi conduce”.

Page 29: Storia della cucina vercellese

27

“Sono, risposi, nato nel Regno di Napoli, Città famosa d’Italia, e di madre

napoletana, ma traggo l’origine paterna da Bergamo, Città di Lombardia; il

nome e il cognome mio vi taccio, che è così oscuro, che perché io pure lo vi

dicessi, né più né meno sapreste delle mie condizioni; fuggo sdegno di Princi-

pe, e di fortuna, e mi riparo negli Stati di Savoia”. Ed egli: “Sotto magnanimo

e giusto e grazioso Principe vi riparate”.

Tornando al nostro dialogo,Torquato Tasso, diretto a Vercelli, giunto

sulla riva sinistra della Sesia, trova il fi ume in piena. Vista l’impossibilità di

essere traghettato, si dirige, accompagnato dal giovane fi glio del nobile

Signore, verso la casa di lui.

Davanti c’è una piazzetta circondata da alberi. Alla casa si accede da

una doppia scala di venticinque gradini per parte, che immette in un’ am-

pia sala di aspetto nobiliare; da una porta, proprio di fronte a quella d’en-

trata, scendendo di venticinque gradini, si entra in un cortile posteriore,

intorno al quale sono molte piccole stanze di servitori e granai; e di là si

passa in un giardino “assai grande”.

Questa confi gurazione anticipa di oltre un secolo la planimetria delle

“cassine”, con le loro corti quadrate circondate su tre lati da alloggi per

“schiavandari”, granai e “travate” per ripararvi fi eno e attrezzi agricoli.

A questo punto, però, a me interessa parlare soprattutto di vivande e

vini, serviti in quell’occasione durante la cena.

Il primo menu “rinascimentale” di Vercelli e del suo territorio, di cui si

ha una descrizione precisa, è quello riportato da Torquato Tasso nel suo

dialogo “il padre di famiglia” e data al 1578/1579.

“Potrò caricarvi la mensa di vivande non comprate le quali, se tali non

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28

saranno quali voi altrove siete solito di gustare, ricordatevi che siete in villa,

e a casa di povero oste (ospite, n.d.r.) vi siete abbattuto”.

Estimo (considero, n.d.r.), diss’ io, parte di felicità*, il non essere costret-

to di mandare alla città per cose necessarie al ben vivere, non che al vive-

re**, delle quali mi pare qui sia in abbondanza”.

“Non occorre, diss’egli, che io per alcuna cosa necessaria, o convenevole

a vita di povero gentiluomo, mandi alla città, perciocché dalle mie terre ogni

cosa m’è, la sua mercè, copiosamente somministrata, le quali in quattro par-

ti o specie***, che vogliamo dirle, ho divise, una parte la maggiore, è da me

arata e seminata di formento e di ogni altra sorta di legumi****. L’altra è

lasciata agli alberi e alle piante, le quali sono necessarie o per il fuoco o per

l’uso delle fabbriche e degli strumenti delle case, comecchè in quella parte

ancora che si semina, siano molti ordini di alberi, su’ quali le viti secondo

le usanze de’ nostri piccioli paesi sono appoggiate: la terza è prateria, nella

quale gli armenti e le greggi, che io ho, usano pascolare: la quarta ho riserba-

ta all’erbe ed a fi ori ove sono molti alberi d’api”.

* Felicità: edonismo dei sensi; il piacere dei prodotti genuini di propria

produzione (oggi defi niti, con termine poco elegante, “ruspanti”).

** Il Tasso probabilmente intendeva, con questa ripetizione, indicare due

tipi di “tenore alimentare”: uno generoso, abbondante e di una certa

raffi natezza; l’altro più parco, contenuto, abituale.

*** Tipologie

**** Secondo Massimo Montanari, nel suo “L’alimentazione contadina

nell’Alto Medioevo”, all’epoca, certi cereali minori (panìco, farro, mi-

glio, sorgo) erano defi niti legumi.

Page 31: Storia della cucina vercellese

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E aggiunge poi che “oltre al giardino che mi produce tanti frutti come

avete potuto vedere, posseggo un grande orto che ogni tipo di verdure pro-

duce”. Il Tasso a questo punto gli tesse un elogio, dicendogli: “non solo

Virgilio avete letto ma conoscete anche Varrone” (Publio Terenzio Varrone,

poligrafo latino del I secolo a.C., scrisse un trattato di agricoltura).

Ma ritorniamo ora alla cena con le sue vivande e i suoi vini, la cui descri-

zione assume aspetti di notevole interesse per un’alimentazione basata

esclusivamente sui prodotti della “cascina”.

Siamo di fronte indubbiamente a una cucina che si può defi nire “di ter-

ritorio”, in sintonia con quanto oggi sostenuto dai migliori chef nazionali

e internazionali.

In tavola “furono portati con abbondanza meloni”, e il gentile ospite

invita il Tasso a mangiarne a suo piacimento, poiché erano stati scelti i

migliori, dolci e saporosi.

Sono stati scelti perché “non tutti sono così dolci”, in quanto, spiega il

padrone di casa, “quelli che poggiano sulla terra , o sono nascosti ai raggi

del sole dal loro stesso fogliame, non arrivano a buona maturazione” (spie-

gazione tecnica di un provetto agronomo).

“Con questi meloni venne servito di un bianco assai generoso; invitato da

lui, bevei un’ altra volta di un claretto molto delicato…”.

I termini “generoso” e “delicato” usati dal Tasso a proposito dei due

vini, termini molto appropriati e alquanto attuali e moderni, lasciano tra-

sparire una certa competenza in fatto di vini da parte del poeta, come il

Tasso dimostrerà anche nella conversazione dopo la cena (da notare il ser-

vizio dei meloni quasi come antipasto: una moda dell’epoca, non molto

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diff usa, che è però arrivata quasi fi no ai tempi nostri in pranzi più o meno

eleganti). Ai meloni seguirà il capriolo, che era stato preparato in due ma-

niere, metà arrosto (e di questo venne servito il Tasso dallo stesso signore

con i pezzi migliori), l’altra metà preparato a modo di manicaretti (elabo-

rato, cioè, in modo da renderlo più saporito ed appetitoso): carne che il

Tasso defi nisce “assai piacevole al gusto: venne con il capriolo, compartito

in due piatti, alquanto di cignale acconcio secondo il costume della mia

patria, in brodo lardiero”, cioè preparato in sugo di lardo; oggi si direbbe

“in umido”.

Anche qui c’è da fare un’importante considerazione sul particolare ac-

cenno con cui il poeta dice “alquanto di cignale acconcio secondo il costume

della mia patria”. Questo è dovuto al fatto che probabilmente la famiglia

aveva già in altre occasioni ospitato personaggi provenienti da ambienti

di corte di ogni parte d’Italia.

Vennero poi serviti due piccioni prelevati da una colombaia della villa e

cotti uno arrosto e l’altro bollito.

Ritornando al claretto molto delicato, c’è da rilevare un aspetto molto

importante.

Il chiaretto era all’epoca un vino prodotto in ogni parte d’Italia: consi-

derando che, generalmente, un vino prodotto in grande quantità non è

mai di grande qualità, questo invece è molto “delicato”: ciò vuol dire che

è stato prodotto da un viticoltore molto esperto.

Il padrone di casa dirà che la mancanza di carne di bue è dovuta al fatto

che in questa stagione ancora calda di tarda estate nessuno mangia volen-

tieri questo tipo di carne; e forse per scusarlo di questa “mancanza” dirà il

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Tasso: “A me basterà, diss’io, se pure non è soverchio, il mangiare delle due

sorti di carni salvatiche e mi parrà di essere a cena con gli Eroi (s'intende,

omerici) al tempo de’ quali non si legge che si mangiassero altre carne”.

Alla fi ne del pranzo, liberato il tavolo dai piatti di carne “vi furono posti

frutti di ogni sorta”. Erano gli stessi frutti che facevano bella mostra sulla

credenza “in candidissimi piatti di creta”. Viene, a questo punto del dialo-

go, aperta un’ interessantissima ed erudita disquisizione sui vini in genere:

il poeta riscontra infatti una certa similitudine tra la cena testè conclusa

con quello che consumavano abitualmente gli antichi eroi omerici beven-

do in abbondanza, e non perde l’occasione di una citazione dotta: implen-

tur veteris Bacchi pinguisque ferinae (si saziano di vino vecchio e di grassa

carne ferina – selvaggina –)*.

A questo punto interviene il padre di famiglia dicendo: siccome avete

introdotto il discorso sugli eroi omerici, voglio dichiarare la mia sorpresa

per come Omero descrive il vino, defi nendolo nero e dolce, che sono due

caratteristiche non lodevoli di un vino. Al gentiluomo questa defi nizione

di Omero pare sorprendente, essendo noto che i vini che da levante arri-

vano a noi sono di color bianco, come lo sono Malvagie, Romanie, e i vini

del Regno di Napoli che greci son chiamati**.

* Virgilio, Aen. I, 215 – Traduzione della prof. Maria Bosso Gavinelli.

* * Malvagie = Malvasia, solitamente passita

Romanie = una varietà di bianco greco

I vini del regno di Napoli = questo è il classico greco, le cui viti furono portate

dalla Grecia; il più famoso di essi è il Greco di Somma Vesuviana.

Page 34: Storia della cucina vercellese

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“Essi – continua il gentil signore – sono bianchi e un po’ dorati, a diff e-

renza di quelli del regno di Germania e gli altri che nascono in paese freddo

ove il sole non ha tanto vigore che possa aff atto maturare le uve innanzi la

stagione della vendemmia”.

Da rimarcare questa arguta e competente considerazione. Poi il Tasso

risponde alle osservazioni che il Signore ha appena espresso sul vino nero

e dolce descritto da Omero, e dice:

“I vini furono da Omero detti dolci con quella maniera di metafora con la

quale tutte le cose o grate ai sensi o care all’animo dolci sono addimandate,

sebbene io non negherò che egli (il padre di famiglia) il vino alquanto dolcet-

to non possa amare il quale a me suol molto piacere; e questa dolcezza sino

a certo termine non è piacevole nel vino, e le Malvagie, i Greci e le Romanie

delle quali abbiamo fatto menzione, tutte hanno alquanto del dolce, la quale

dolcezza si perde con la vecchiaia onde si legge: inger mi calices amariores

(riempimi i calici di vino più amaro, cioè più vecchio)***, non perché il po-

eta desiderasse il vino amaro, che alcuno non è a cui l’amaritudine nel vino

non fosse spiacevole, ma perché il vino vecchio perdendo la dolcezza acqui-

sta quella forza piena di austerità che egli chiama amaritudine, onde vorrei

che così intendeste”.

Questa è una considerazione degna di enologo o sommelier dei giorni

nostri, che direbbe a questo proposito: un vino che da giovane ha sentori

di frutta e profumi vivaci, invecchiando avrà caratteri più compositi, di mi-

nor freschezza, ma più raffi nati e di maggior corpo.

*** Catullo, XXVII, 2 Traduzione della prof. Maria Bosso Gavinelli.

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Stupisce la modernità e l’ampiezza di argomentazioni in questa anali-

si fatta da Torquato Tasso, quasi egli fosse un esperto enologo. Infi ne, il

padre di famiglia parla della vendemmia, considerandola l’operazione di

campagna che deve avere la maggior cura tra tutte le coltivazioni, e defi -

nendola “nobile fra tutte”.

Infatti, se la raccolta dei frumenti venisse fatta con trascuratezza e ne-

gligenza “de villani” (contadini) subirebbe danno e disagio, ma nella ven-

demmia e vinifi cazione un minimo di trascuratezza e negligenza non solo

provocherebbe un danno materiale, ma non si potrebbe nell’occasione di

ospiti importanti e illustri fare onore alla tavola con importanti vini, “senza

i quali non solo Venere è fredda****, ma insipide sono tutte le vivande che

potesse condire il più eccellente cuoco”.

Anche questa è un’analisi attualissima e moderna, da autentico

gourmet: considerazione che si potrebbe girare tout court a tanta risto-

razione dei giorni nostri; e io aggiungo: se è vero che buon vino può fare

buon sangue, sicuramente fa buon pasto.

Questo, descritto nei minimi dettagli, è l’unico pranzo del tardo ‘500

che si conosca nel dettaglio delle portate, dove cibi e vini e personaggi ci

sembrano meno lontani degli oltre 400 anni che ci dividono da loro.

Questa cena avvenuta sotto i cieli vercellesi può segnare il punto di par-

tenza storicamente documentato della nostra cucina, tenuta a battesimo

da così illustri personaggi.

**** Quando “Venere è fredda”, gli stimoli sessuali sono inibiti.

Page 36: Storia della cucina vercellese

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Seguirà un percorso in ambiente diverso da quello appena descritto:

sarà l’ambiente povero, contadino che darà impulso con l’impegno tena-

ce, i sacrifi ci, la dedizione, la passione al faticoso procedere. La nostra tra-

dizione culinaria al tempo del Padre di famiglia, dopo secoli di profonda

miseria a base di polenta, zuppe e focacce ottenute da farro, miglio, sorgo

e panìco, incontrava con diffi denza il riso: riso che ai primordi veniva “la-

vorato” in modo molto approssimativo (non privandolo completamente

della corteccia), con tanti grani rotti e un po’ di parte farinosa. Un altro

miscuglio che aveva cambiato solo colore.

Ma l’impegno, la volontà dei tecnici di allora migliorarono via via la la-

vorazione di questo cereale: migliorò di conseguenza anche la cucina del

Vercellese che porterà sempre con sé il riso come un alimento inseparabi-

le. Essa procederà a sobbalzi, con progressi tangibili e lunghe pause , per-

ché condizionata dagli eventi, sia di carattere militare (guerre, occupazio-

ni, saccheggi), sia dalle vicende economiche e sociali (carestie, pestilenze,

epidemie). Nei periodi di tranquillità e di relativo benessere compirà pro-

gressi e miglioramenti, che confl uiranno, centocinquant’anni dopo (1738),

a Villata, con “al disnè d’la spusa”, caratterizzato da una impostazione

gastronomica già ben defi nita.

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Lista di pitansi dal disné d’la spusa

Salam d’la duja

Cudighin e sanguinass

Ran–i frici

Ran-i pini

Ran-i in bagna

Ran-i marià

Paniscia cun i fasoi grosc nustran e salam vecc

Fritura d’nimal, vidèl e roba dulsa

Strachin d’la Vilata sensa siringa

Vin rus d’la crota dal Canèla

* * *Menu del pranzo di nozze

Salame sotto grasso

Cotechini e sanguinacci

Rane fritte

Rane ripiene

Rane in umido

Rane bagnate nell’uovo e fritte

Panissa con i fagioli grossi nostrani e salame vecchio sotto grasso

Fegato di maiale, vitello e roba dolce

Gorgonzola di Villata (senza siero)

Vino rosso delle cantina della famiglia Canella *

* Antica famiglia villatese tuttora presente in paese.

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Si tratta di un menu per un pranzo di matrimonio (disnè d’la spusa) ri-

salente al 1738 e ritrovato in mezzo a vecchie carte nell’Archivio del Muni-

cipio di Villata. Questo menu, o elenco di vivande, rappresenta una pietra

miliare per la ricostruzione della storia della cucina vercellese.

Trattasi indubbiamente di un pranzo “ricco” in un mondo povero

dell’epoca. L’elenco delle vivande comprendeva anche la torta nuziale

(sic!), che non fu servita per la deprecabile assenza della sposa, dovuta a

una lite maturata tra le due famiglie durante gli accomodamenti e i prepa-

rativi nuziali. Sicuramente un pranzo così, a quei tempi, nel paese contadi-

no di Villata, se lo potevano permettere solo famiglie di una certa agiatez-

za. E poi una lite in atto per ragioni di interesse presuppone che gli attori

o le parti in causa fossero di un certo stato sociale.

E siccome i contatti dei privati con i vignaioli delle colline novaresi e gatti-

naresi, e con quelli del Monferrato, non esistevano, ecco al vin rus d’la crota

dal Canèla*, sicuramente la miglior fonte di approvvigionamento sul posto.

Quello che va rilevato è che ci troviamo di fronte a un pranzo che oggi

non sarebbe proponibile per uno sposalizio, ma per un pranzo in famiglia

tra parenti o amici sarebbe attualissimo: e che pranzo!

E’ da ritenere, pertanto, che se nel ‘700 si preparavano piatti della cucina

vercellese a quel livello, i primordi di quella cucina risalgono almeno a cen-

to anni prima. Si può inoltre constatare che la panissa descritta con i suoi

componenti di base non è molto diversa da quella dal cusiné dal Ricet ad

Larisè preparata cento anni dopo, di cui diremo più avanti. Il menu di questo

disnè d’la spusa è da considerare abbastanza vicino al nostro tempo, per-

ché evidenzia elementi caratteristici della attuale cucina tipica vercellese.

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Così abbiamo:

• Fasöi grosc (sicuramente l’attuale fasòla d’la Vilata)

• Salam vecc (già in atto la pratica della conservazione sotto grasso)

• Fritura d’nimal, vidèl, roba dulsa (un bell’abbozzo di fritto misto)

Un’ultima considerazione, riguarda l’ordine di servizio delle pietanze,

che si avvicina molto a quelle che sono le regole attuali.

Ecco come è descritta la successione delle portate e come le si può

raggruppare oggi:

ANTIPASTO: salam d’la duja, cudighìn, e sanguinàss

Ran-i frici, ran-i pini, ran-i in bagna, ran-i marià

PRIMO: panissa

SECONDO: fritto misto (seppure incompleto)

FORMAGGIO: stracchino (una specie di gorgonzola)*

E…DOLCE: (torta nuziale)

Le rane, considerata la loro fi nezza e leggerezza, vengono servite come

antipasto insieme ai salumi, e non dopo il primo piatto. Infi ne, la specifi -

ca che riguarda la strachìn sensa siringa, induce a pensare che i prodotti

usati per il pranzo fossero di prima qualità. E poi, una torta nuziale a quei

tempi! E’ molto probabile che tutto ciò sia avvenuto sotto la vigile guida

di un cuoco professionista, che le due famiglie potevano permettersi. Si-

curamente si è trattato di un pranzo che a Villata ha fatto epoca per aver

indotto qualcuno a conservarne la “minuta” tra i documenti comunali.

* Ancora oggi a Villata il gorgonzola è chiamato stracchino.

Page 41: Storia della cucina vercellese

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RICETTA D’LA PANISSA DAL CÜSINE’

DAL RICET AD LARISÈ E QUELLA

DI VIRGINIA GALANTE GARRONE

Centovent’anni dopo circa, a Larizzate, incontriamo un altro evento

“storico” per la cucina vercellese: “La ricèta d’la panisa dal cusiné dal ricèt

ad Larisè”. Questa ricetta è stata ritrovata recentemente nell’archivio di

un noto legale vercellese, ed è scritta in perfetto dialetto vercellese.

Ecco l’originale della suddetta ricetta:

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Un’altra panissa “storica”, di qualche decennio dopo, la troviamo nel

bellissimo libro di Virginia Galante Garrone “Se mai torni…”, uscito alle

stampe una trentina di anni fa.

A proposito della cucina di mamma Margherita l'autrice scrive: “Era or-

gogliosa delle sue pentole lucenti come oro, delle sue pietanze paesane, spe-

cie della panissa, che nessuno come lei sapeva preparare, con riso, fagioloni,

lardo e salamini”.

La ricetta di Larizzate porta la data del 18 ottobre 1851. Il cuoco che l’ha

preparata dimostra una grande professionalità per la chiarezza e la preci-

sione usate nel descriverla. Si tratta indubbiamente di una panissa al mas-

simo livello qualitativo per quei tempi: migliore di tante panisse che anco-

ra oggi si possono trovare nella ristorazione o anche presso le famiglie.

Questo “ricèt” è senza dubbio un circolo esclusivo di notabili vercellesi,

che già allora conoscevano l’uso e il consumo del Bramaterra, vino eccel-

so delle Prealpi vercellesi, allora conosciuto da pochissime persone.

Ad essere scrupolosi al massimo, le osservazioni o i rilievi che si posso-

no fare a questa panissa – come suggerimenti migliorativi e adatti ai gusti

d’oggi – sono i seguenti:

1. Un leggero aumento di lardo, volendo escludere l’olio usato.

2. Riduzione a metà circa dei fagioli, poiché 200 gr per quattro perso-

ne oggi sarebbero troppi.

3. Volendo, anche una leggera riduzione del vino; e sostituire il Brama-

terra con una buona Barbera.

4. La variazione più importante resta però il momento dell’aggiunta

del vino: decisamente meglio aggiungerlo dopo la tostatura del riso

Page 43: Storia della cucina vercellese

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che non verso la fi ne della cottura. Questo perché gli “antociani”

contenuti nei vini rossi, apportatori di aroma e profumo, evaporano

meglio sul riso appena tostato che non in quello brodoso: infatti in

questo caso avvertiremo un leggero sentore aromatico, perché gli

antociani non sono ben evaporati.

Da Villata (1738) a Larizzate (1861) la cucina vercellese è in continuo

miglioramento.

La panissa preparata dal cusiné dal Ricèt ad Larisè è già perfetta, ma, come

ho accennato poc’anzi, i centocinquant’anni che intercorrono dal pranzo di

Torquato Tasso al pranzo di nozze di Villata, e i successivi centoventi anni che

vanno dal disnè d’la spusa alla panisa dal cusiné dal Ricèt ad’Larisè non rappre-

sentiamo un percorso facile. Le epidemie e le carestie, la fame, le guerre coi

loro saccheggi e distruzioni, bloccarono per decenni lo sviluppo gastronomi-

co e alimentare. Furono le carestie degli anni 1764- 1767 e quelle del 1816- 1817

a fermare per lunghi periodi la crescita della civiltà agroalimentare, che, per

essere nata e cresciuta nella campagna, ne era stata fortemente colpita. Così

nei primi decenni dell’Ottocento il popolo della campagna patì enormemente

la fame, senza arrivare al punto estremo, cioè alla morte, come era avvenuto

durante le carestie dei secoli precedenti; e questo perchè i commerci svilup-

patisi nel diciassettesimo e diciottesimo secolo consentirono approvvigiona-

menti suffi cienti a lenire un po’ le piaghe della denutrizione. Inoltre, le coltiva-

zioni del mais e della patata, introdotte da poco, con la loro resa elevatissima

contribuirono a soddisfare i bisogni della popolazione.

Con l’aprirsi dei rapporti commerciali “regionali” e i relativi traspor-

ti, nasce la ristorazione popolare, cioè quella delle osterie, locande e

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stamberghe; quasi tutte con servizio di stallaggio e punti di sosta per il

cambio dei cavalli e alloggio. Esse avevano come avventori conducenti,

carrettieri, negozianti di bestiame, con relativo seguito di mediatori e sen-

sali. Frequentavano, come potenziali avventori, queste osterie muratori,

fabbri e maniscalchi, diretti in centri di una certa importanza per l’acquisto

di materiale loro occorrente.

Ovviamente, in mezzo a questo andirivieni eterogeneo, si infi lavano

“caminànt”, “lapagiùn”, e “mangialàrd”, ovvero gente di non proprio

specchiata reputazione. I migliori fra questi posti di ristorazione erano

frequentati anche da passeggeri delle diligenze, che coprivano le lunghe

distanze fra Torino, Milano, Svizzera, Venezia, Austria.

Carrettieri particolari erano quelli che percorrevano le cosiddette “vie

del sale”, trasportando il prezioso alimento dal Mar Ligure a tutto il Pie-

monte e oltre. Esiste tuttora a Oldenico un tratto di qualche centinaio di

metri denominato “strà d’la sal”. E’un tratto della vecchia strada Vercelli-

Valsesia che, guadando il torrente Cervo nei pressi di Quinto, fi ancheggia-

va il corso del fi ume Sesia fi no a Gattinara.

E quale poteva essere il pasto abituale delle famiglie di gente di cam-

pagna in quegli anni? Sicuramente zuppe di verdura, soprattutto patate,

verze e fagioli e abbondanti polente. Iniziarono in questo contesto pri-

mordiali tentativi di risotti.

In occasioni particolari si ricorreva a qualche “muda” di volatile, cioè

quello che oggi è defi nito il quinto quarto, ovvero la parte restante dei

quattro quarti (testa, collo, zampe, ali, frattaglie). Erano anche apprezzati

pezzi di musino, testa e zampini di vitello.

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I condimenti abituali erano lardo e strutto di maiale.

A metà del Settecento iniziano i grandi allevamenti di mucche lattifere,

l’installazione dei primi casari, e quindi la prima produzione di burro. Era

un burro non paragonabile a quello di oggi, perché ottenuto da “affi ora-

mento”, e quindi meno pregiato, meno grasso e più acido di quello che si

produrrà centocinquant’anni dopo (verso la fi ne del 1800) per “centrifuga-

zione”, attraverso macchine appositamente inventate (De Laval e Le Feld).

Ma per la classi meno abbienti, cioè per la gente di campagna, il burro non

era accessibile per il suo alto costo: il doppio del lardo e il triplo dello strutto.

Lo usavano solo in caso di estrema necessità, malattie, lunghe convalescen-

ze, e soprattutto ne fruivano le puerpere nei numerosi parti dell’epoca.

E’ il caso di notare, a questo riguardo, come certi alimenti che erano

allora il cibo dei poveri, come acciughe, salacche, merluzzo, lardo, fagioli,

siano diventati ora cibi pregiati, dato l’alto prezzo raggiunto. Le circostan-

ze inducono a prevedere che altri prodotti seguiranno la stessa tendenza.

La storia della cucina tipica vercellese si potrebbe scandire in tre

periodi:

PRIMO PERIODO – dal pranzo di Torquato Tasso fi no al disnè d’la spusa di

Villata.

SECONDO PERIODO – dal disnè d’la spusa di Villata fi no alla panisa dal Ricèt.

TERZO PERIODO – dalla panisa dal Ricèt ad Larisè allo storico pranzo del

“Leon d’Oro”* del 1901, e fi no ai tempi nostri.

* Il “Leon d’Oro” operava nel palazzo tuttora esistente all’angolo di Via Fratelli

Ponti e Via Palazzo di Città.

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IL PRANZO AL “LEON D’ORO” (1901)

Il pranzo del “Leon d’Oro” fu servito in occasione della presentazione

dell’Associazione Monarchico-Liberale di Vercelli. Il menu di questo pran-

zo è presentato in bella immagine e scrittura d’epoca con queste portate:

Consummé (corr.: consommé) alla Reale

Trota alla Munier (corr.: meunier, alla mugnaia)

Filetto di bue alla Parigina

Giambone affumicato alla purrée di marroni

Fonduta con tartufi

Pernici arrosto

Insalata

Zuppa all’inglese (salsa Pesche)

Desserts (frutta miste)

Trattasi indubbiamente di un pranzo eclettico per un’élite altrettanto

eclettica.

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La minuta termina con una dicitura di lettura un po' incerta: Vino Bott./

sotto Pasto. Nella prima ipotesi, si potrebbe intendere “vino da pasto in

bottiglia”; nella seconda, potrebbe trattarsi di una formula d'uso della ri-

storazione dell’epoca, che potrebbe voler dire che i vini erano elencati o

sotto il menu (minuta) o su un foglio aggiunto, alla stregua di una Carta dei

vini odierna. Da notare, inoltre, la parola Dessert, scritta impropriamen-

te con la “s” fi nale, come plurale francese, una svista dello chef. Trattasi

senz’altro di un servizio di frutta varie, che lo chef ha evidenziato in ma-

niera errata. Interessante, però, notare che la frutta viene servita dopo il

dolce, secondo le regole della ristorazione attuale. Sarà proprio casuale o

trattasi di un menu precursore dei tempi?

Quindi, per tracciare un succinto ma indicativo percorso storico della

cucina vercellese, possiamo ben dire che è “occasione” o momento inizia-

le il pranzo di Torquato Tasso: inizia da qui a fare i primi incerti passi, che

dureranno decenni fi no ad arrivare, nell’800, al pranzo di Villata, dove la

cucina si dimostra ormai cresciuta e formata. In quell’occasione essa de-

nota già gli aspetti caratteristici che si andranno sempre più affi nando fi no

ad arrivare cento anni dopo al Ricèt ad Larisè con la ricetta della panissa già

perfetta ed attuale. Ed è da questo momento che la cucina vercellese si

può defi nire tipica.

Da questo momento la cucina vercellese cresce e si sviluppa nell’am-

biente contadino, attraverso il canale familiare, ottenendo le migliori rea-

lizzazioni qualitative in ambito borghese, che ha maggiori possibilità eco-

nomiche per impiegare ingredienti di prima qualità.

Nel campo della ristorazione, trattorie e modesti ristoranti sposano

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appieno la cucina vercellese. La ristorazione di un certo livello, pur non

escludendola del tutto, è però infl uenzata dalla scuola parigina, perché

“Il cuoco piemontese perfezionato a Parigi” (1895, Ed. l’Artistica Savigliano)

non è passato invano. Un tipico esempio di questo infl usso lo possiamo

trovare in quel pranzo servito al “Leon d’Oro” nel 1901, che presenta un

menu di pretta ispirazione francese. Non è sicuramente questo il primo

che sentirà questa infl uenza; sicuramente altri ristoranti hanno operato,

soprattutto in anni precedenti, ispirandosi alla scuola parigina.

La cucina vercellese continuerà a diff ondersi e a migliorare sino a dopo

il secondo confl itto mondiale.

Da questo punto la nostra cucina, che aveva ben resistito a quella ve-

neta, arrivata con le grandi migrazioni degli anni ’20 e’50, cede alla vera

invasione di quella napoletana che, col suo cavallo di battaglia, la pizza,

conquisterà soprattutto le giovani generazioni.

Alla pizza si aggiungeranno, negli anni successivi, gli hamburger delle

multinazionali; e così la cucina vercellese conoscerà un vero declino.

Per concludere, possiamo dire che “la cucina del territorio”, o cucina

locale, è come un messaggio trasmesso all’esterno, una comunicazione

che vuole investire un mondo più ampio. Non sempre questo riesce, per-

ché oscurato dallo strapotere dei grandi centri commerciali, da quello te-

levisivo, e soprattutto da quello delle multinazionali, che vogliono impor-

re con la forza le “loro” preparazioni. Esse non hanno un retroterra che si

richiami ad una storia, o quanto meno ad una tradizione, e quindi ad una

“civiltà gastronomica”.

La nostra cucina aff onda le sue radici in quella civiltà contadina che fu

Page 50: Storia della cucina vercellese

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la humus di costumi e tradizioni che ci accompagnarono per un paio di

secoli, fi no ai giorni nostri. Essa è parte integrante del nostro stile di vita,

quindi del nostro patrimonio culturale.

Le nuove travolgenti cucine non sono riuscite tuttavia a cancellare

del tutto dal nostro quotidiano la cucina del territorio, che, come dice il

gourmet astigiano Luigi Goria, “è il patrimonio più bello, più concreto, più

culturalmente identifi cabile di ogni popolazione, così come lo sono la lin-

gua parlata, il dialetto, la tradizione favolistica, i proverbi, le canzoni, di

quella determinata stirpe o area. Questa cucina sorge dalla notte dei tempi,

per tradizione orale, avendo come faro l’agricoltura, i prodotti spontanei,

cereali, ortaggi ed erbe disponibili, ma anche i gusti, le inclinazioni e l’indole

di quella popolazione. Come la crescita di un popolo nella propria cultura e

costume, la cucina locale, sia popolare che borghese, o nobiliare, è simile a

un fi ume. Le acque sorgenti vanno crescendo e si trasformano unendosi a

quella degli affl uenti, ma in defi nitiva alla foce hanno ancora qualcosa del

processo iniziale”.

Pur condividendo questa profonda analisi di Luigi Goria, eccepisco

che la nostra cucina di territorio è giunta integra fi no a noi, nonostante

le migrazioni interne, quali quella veneta e quella napoletana, con le loro

cucine tradizionali, accettate ma non subite. Concludendo, possiamo ben

dire che, né l’invasione delle pizzerie collocate sul nostro territorio, né la

fi tta rete di fast food, sono riuscite a sostituirsi appieno alla nostra cucina

locale. Le sagre di fi ne estate che da diversi anni si tengono a Vercelli (la

sagra della panissa, la sagra della rana e la sagra dell’agnolotto) sono una

dimostrazione di quanto sia ancora sentita la tradizione della nostra

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49

cucina. La notevole adesione, alla fi ne degli anni ’90, all’Associazione degli

amici della cucina tipica vercellese è testimonianza di come sia ancora vivo

il sentimento della tradizionale cucina locale. L’aver resistito per decenni

a quanto sopra descritto è dovuto sicuramente alla sua semplicità nella

genuinità, gusto e naturalezza.

La prima metà del ventesimo secolo (1900-1950) si caratterizza note-

volmente per l’allevamento del maiale nell’ambito familiare della vita con-

tadina. In questo periodo quasi tutte le famiglie dei paesi del Vercellese

ambivano ad allevare il proprio maiale. Naturalmente, la cosa era più alla

portata dei piccoli coltivatori, che traevano il cibo per il mantenimento

del maiale dalle loro campagne; non così per i braccianti, i quali dovevano

ricorrere all’acquisto dei suddetti alimenti per l’allevamento. E per costo-

ro erano veramente dei grossi sacrifi ci economici. Arrivavano al punto di

associarsi in due famiglie per allevare un maiale, e dividersi così le spese,

dividendosi poi a metà il capo macellato.

Page 52: Storia della cucina vercellese

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Page 53: Storia della cucina vercellese

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LA CIVILTÀ DEL MAIALE

La prospettiva di fondo della civiltà greca e latina era quella che dise-

gnava la città circondata da campi coltivati, l'ager, e poi il saltus, cioè l’in-

colto. Quest’ultimo era visto, sì, come un paesaggio di natura vergine, ma

con una accezione di inciviltà, di selvaggio, di non antropizzato. Ciò nono-

stante, riconoscendolo come naturale, le civiltà antiche si adeguavano a

forme marginali di sfruttamento della natura incolta (vedasi l’economia

del bosco quale fornitore di legname, o della palude per pesci e uccelli).

Comunque, gli elementi fondanti che caratterizzarono per secoli la ci-

viltà greca e sopratutto quella romana furono: frumento, vite, ulivo. Era

questa la civiltà mediterranea a forte caratterizzazione di colture agricole

e arboree.

Accanto a questi prodotti basilari non secondaria importanza ebbe l’or-

ticoltura.

Faccio notare, a questo proposito, che l’orto è una forma di coltivazio-

ne antichissima, quasi sempre presente come pertinenza di ogni coltiva-

zione agreste.

In netta contrapposizione, sotto questo aspetto, era la civiltà dei bar-

bari (così defi niti e considerati dai Romani), costituita dagli abitanti del

centro-nord Europa.

Celti, Germani, Sassoni privilegiavano lo sfruttamento della natura ver-

gine e degli spazi incolti: quindi grande caccia, pesca, allevamenti bradi di

equini, bovini e soprattutto maiali.

Page 54: Storia della cucina vercellese

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Tuttavia le fonti antiche testimoniano segni di una agricoltura di sussi-

stenza – praticata a turno da maschi di stirpi guerriere e nomadi –, come

tra i Germani; con la romanizzazione, poi, l’agricoltura si aff ermò anche

tra i barbari (ad esempio, fu molto progredita in Gallia).

I Romani, d’altra parte, deducevano colonie agricole nei territori occu-

pati: il processo di civilizzazione passava, dunque, attraverso la diff usio-

ne dell’agricoltura e della zootecnia, con un vasto piano di bonifi che e di

estensione della terra coltivata.

Fu, questo, il caso della Gallia Cisalpina, cioè dell’Italia settentrionale al

di qua delle Alpi.

Sotto questo aspetto possiamo ben dire che un confi ne che ci riguarda

da vicino è il corso del fi ume Po, a sud del quale inizia, per così dire, la civil-

tà mediterranea, e a nord quella europea. Ovviamente, la distinzione non

è così netta e rigida, perché anche i Germani consumavano cereali, così

come i Romani mangiavano carni suine.

La questione è quella di valutare il ruolo specifi co dei singoli prodotti

nel regime alimentare. Quindi il punto non è tanto quello di produrre, ma

di inventare e preparare al meglio il cibo derivante.

Gli studi sull’antichità parlano dei Germani che usavano i cereali per

fare pappe e focacce, ma non conoscevano la preparazione del pane.

Se ne conclude, quindi, che la pratica dell’agricoltura non basta per col-

locare un popolo nell’ambito della civiltà.

Quindi, per ribadire quanto sopra, le due grandi civiltà, la mediterranea

e la germanica, erano connotate, una dalla coltivazione di frumento, olive,

vite; l’altra dai grandi allevamenti, allo stato brado, di equini, bovini, maiali.

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A partire dal Medio Evo lo sfruttamento delle grandi foreste, che ca-

ratterizzavano tutte le regioni europee, fu una regola quasi naturale. Ma

occorre fare una considerazione: mentre nobiltà feudale, piccola nobiltà

e alta borghesia preferivano cacciare più che altro volatili, visto che pote-

vano farlo tutti i giorni e avere quindi selvaggina fresca, non così andava

per i contadini e i servi della gleba. Questi, infatti, avendo soltanto rare

occasioni di cacciare, orientavano le loro catture – ricorrendo anche al

bracconaggio – a selvaggina di terra e di grossa taglia, quali cinghiali, cervi

e daini; animali che fornivano approvvigionamento duraturo nel tempo

mediante aff umicatura e salatura.

A partire dal XVI secolo l’allevamento brado degli animali (cavalli, bo-

vini e maiali) va man mano scemando. Si farà ricorso, perciò, sempre più

alla stabulazione, cioè all’allevamento custodito in recinti prima, e poi in

stalle e porcilaie.

Per quanto riguarda il maiale, si instaura nelle nostre campagne una

forma di allevamento che io defi nisco “collettivo”. In ogni paese emerge

la fi gura del pastore, custode dei maiali. Costui, nelle prime ore del matti-

no, percorreva la strada principale del paese suonando un corno. I maiali,

già avvezzi a questo suono, partivano da soli dai loro cortili e si recavano

al punto di richiamo. Quelli che non conoscevano ancora questa “chia-

mata”, venivano accompagnati dai rispettivi proprietari fi no al punto di

incontro. Così il gruppo dei maiali prendeva la strada del bosco, accom-

pagnati dal loro custode, e permanendo per l’intera giornata in mezzo al

bosco si nutrivano di ghiande e altri frutti selvatici.

Fu questa una pratica che, nella nostra zona, andò avanti per circa

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trecento anni, fi no ai primi decenni del 1900. Questo sistema permetteva,

a chi aveva la possibilità di procurarsi un maialino, di portarlo fi no a un

certo peso con pochissimi costi per il suo allevamento.

Nei primi decenni del 1900 il sistema del pascolo collettivo del maiale

cessa e ci si orienta sempre più verso la stabulazione, più razionale e fun-

zionale.

Infatti perché l’allevamento chiuso, con un’alimentazione più completa

ed equilibrata, dava risultati migliori.

Dai ricoveri precari e improvvisati, fatti di sassi, vecchie porte, e fogli di

lamiera, si passò alle prime porcilaie in muratura. Anche questa distinzio-

ne rispecchiava le diff erenti possibilità fi nanziarie dell’utente allevatore.

Addirittura il “trogolo” (in dialetto trö), la vaschetta di 10-15 litri dove ve-

niva somministrato il cibo, poteva essere in legno o in cemento.

I maialini comprati erano capi appena svezzati, e pesavamo dai 10 ai 20

kg. Si faceva ricorso alle grandi fi ere di bovini, cavalli e suini, soprattutto a

quella di Ognissanti a Vercelli.

Importanti erano anche le fi ere di Santhià, Cigliano e S. Germano.

L’ultimo appuntamento fi eristico per l’acquisto del maialino era la fi era

di S. Mattia del 25 febbraio a Vercelli. In questo caso il capo non doveva

essere inferiore ai 20-25 kg, diversamente non avrebbe avuto davanti un

periodo suffi cientemente lungo per uno sviluppo redditizio, considerando

che il periodo di macellazione era dicembre/gennaio.

La scelta del maiale alla fi era, in mezzo a centinaia di capi, era sempre

un po’ un azzardo, dovendosi scegliere un capo che desse sicurezza di una

buona crescita. Pochi avevano cognizioni specifi che al riguardo. Allora ci

Page 57: Storia della cucina vercellese

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si affi dava alle conoscenze empiriche di esperti o competenti del paese.

Se si indovinava l’acquisto, il mantenimento e lo sviluppo erano garanti-

ti. L’allevamento di un maiale, nelle famiglie dei contadini, costituiva un

impegno fi nanziario abbastanza rilevante; per cui, a volte, per ripianare il

bilancio familiare messo a dura prova, quando si macellava l’animale se ne

vendeva una mezzena o un quarto a un’altra famiglia che non aveva avuto

la possibilità di allevarlo.

L’allevamento del maiale era un vero investimento a rischio, perché

qualche volta, si ammalava, o deperiva, o moriva.

Il buon andamento dell’allevamento e la conseguente crescita dell’ani-

male veniva perfi no augurata tra la gente del paese: quando ci si incontra-

va, oltre a scambiarsi i saluti e le informazioni sulle rispettive famiglie e sul

lavoro, chiedevano:

“Al mangia ’l purchët?”

Questo la dice lunga sull’importanza che aveva il maiale nell’economia

domestica di quelle genti. Il miglior prodotto ricavato dalla lavorazione

contadina del maiale, il salame sotto grasso, era così apprezzato che a

volte il contadino che doveva ricorrere alla mano d’opera di qualche brac-

ciante per determinati lavori importanti e faticosi, si sentiva richiedere dal-

lo stesso, oltre alla paga, anche un salame sotto grasso in aggiunta: quasi

una moneta di scambio.

I procedimenti e le ricette per fare i salami destinati ad essere messi

sotto grasso erano i seguenti:

– Carne magra 75%

– Parti grasse 25%

Page 58: Storia della cucina vercellese

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La carne magra conteneva anche le parti nobili del maiale (coscia e

lombo).

La macinatura delle carni (che un tempo si faceva solo a coltello) veniva

fatta con griglia n° 10 (buco da 10 mm di diametro).

Per ogni 100 kg di macinatura mista, grassa e magra, venivano aggiunti:

– 350 gr di sale fi no

– 50 gr di pepe in grani spezzati

– 50gr di salnitro (nitrato di potassio), che facilitava l’asciugatura del

salame

– 1 litro di buon vino rosso bollito per qualche minuto, con una decina di

spicchi d’aglio pestato e poi tolto (era suffi ciente per profumare tutto

l’impasto dei salami).

Tutto l'impasto era mescolato da due persone per almeno trenta minu-

ti, fi nchè la carne, assorbendo il sale, si asciugava al punto da lasciare le

mani pulite e asciutte.

La carne, con l’aiuto di apposite macchine , veniva insaccata in budella

bovine.

Queste venivano dissalate e poi tagliate della lunghezza di una spas

(antica misura contadina non codifi cata), della lunghezza di circa 170 cm,

corrispondente all’ incirca all’apertura delle braccia tese di un uomo.

Venivano lavate all’interno e all’esterno molto scrupolosamente in ac-

qua calda per quattro o cinque volte, e poi risciacquate per due volte in

acqua fredda. Le budella erano così pronte per essere riempite e poi le-

gate con spago fi ne in modo che si formassero i salami della lunghezza di

15-18 cm.

Page 59: Storia della cucina vercellese

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Alle due estremità si lasciavano 50-60 cm di spago, che servivano per

legare la fi la a due lunghe pertiche di legno fi ssate al soffi tto alla distanza

di un metro e mezzo circa una dall’altra. Le fi le di salami, legate una ap-

presso all’altra e distanziate di 10 cm circa, una dall’altra, formavano la

cosiddetta “tòpia”. Una tòpia di salami.

A questo punto diventa importantissima l’asciugatura e l’essicazione

dei salami. Per i primi tre giorni la temperatura doveva essere sui 25° (tem-

peratura ottenuta attraverso stufe a legna). Per i restanti 10-12 giorni sui

20°. Ogni 3-4 ore bisognava aprire la fi nestra per qualche minuto per cam-

biare l’aria. I salami dopo qualche giorno assumevano un meraviglioso e

invitante colore rosso e bianco. Dopo questo tempo venivano staccati e

poi tagliati nel fi lo uno per uno e messi nell’ula o duja, uno vicino all’altro

in posizione orizzontale. Il grasso che si era ottenuto per la preparazione

dei ciccioli (sunsìn) nel giorno della lavorazione del maiale, e che nel frat-

tempo si era indurito, veniva sciolto e portato ad una temperatura di circa

30°, e poi immesso sopra i salami fi no alla loro totale copertura. I recipienti

venivano posti in ambiente fresco e ventilato per almeno sei mesi (tempo

che ora viene ridotto a 3-4 mesi) prima di essere estratti e consumati. Que-

sto è il metodo classico e tradizionale per ottenere i tipici e caratteristici

salami sotto grasso.

Oggi però i salami che vengono prodotti hanno un contenuto di grassi

decisamente inferiore a quelli di un tempo, e una macinatura molto più

fi ne; questo perché il consumatore di oggi, pensando che un po’ di grasso

in più sia nocivo alla salute, richiede prodotti “magri”, che in questo modo

si allontanano però dalla tipicità tradizionale.

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Questo salame insaccato, che si produce da almeno tre secoli, non ha

mai varcato i confi ni di una trentina di comuni dell’hinterland vercellese,

insieme a qualche comune novarese dell’immediato Oltresesia, e a qual-

che comune della Lomellina.

Vero fi ore all’occhiello della gastronomia locale, ha rappresentato una

prelibatezza per buongustai della città, e nutrimento per generazioni di

famiglie della campagna. A proposito di questi salami, sarà opportuno

fare una precisazione che riguarda i loro recipienti di conservazione.

A Vercelli capoluogo e in tutta la bassa vercellese questi salami sono

chiamati i salam d’la duja (termine dialettale derivante da doglio-latino

dolium); in tutta la zona ad ovest di Vercelli e a nord, fi no a Gattinara, sono

defi niti col termine ai salam ad l’ula, termine derivante da olla (latino e

italiano).

Secondo le indicazioni date dallo Zingarelli, se ne deduce che è più ap-

propriato il termine ula e non duja, perché doglio, da cui deriva il termine

dialettale duja, era un grosso vaso di creta usato anticamente per la con-

servazione e il trasporto di cereali, olio e vino.

Olla, da cui deriva il termine dialettale ula, era un recipiente privo di

anse, per lo più in terracotta o in rozza pietra, usato anticamente per cuo-

cere o conservare sostanze alimentari.

Considerata poi la diversa dimensione (molto più grosso il doglio), sicu-

ramente è molto più appropriato il termine ula.

Quando queste olle cominciarono a scarseggiare, perché andavano

man mano logorandosi, e non venendo più prodotte (anni ’40 – ’60), si

ricorse all’uso delle latte, quelle della conserva da 10 kg, e quelle dell’olio

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lubrifi cante o del carburante da 20 lt. Queste ultime venivano private del-

la parte superiore, quella del beccuccio, e venivano passate sulla fi amma

internamente, poi lavate e disinfettate accuratamente. Erano degli ottimi

contenitori. Con l’avvento della plastica si ricorse poi ai secchielli e alle

vaschette di questo nuovo materiale.

Certe salumerie hanno usato fi no a poco tempo fa svariati tipi di vasi

di vetro, quelli che una volta contenevano pastigliaggi e confetti vari. I sa-

lami contenuti in questi recipienti venivano generalmente coperti di olio:

i salami così ottenuti non rispecchiano però le caratteristiche tipiche del

salame sotto grasso.

I PREPARATIVI E LA MACELLAZIONE DEL MAIALE

NELLE FAMIGLIE CONTADINE NEL PERIODO DAL 1930 AL 1950 CIRCA

Già alcuni giorni prima della macellazione fervevano i preparativi; veni-

vano pulite le caldaie, che sarebbero servite poi alla bollitura dell’acqua:

particolare cura era dedicata a quella (la più bella) che sarebbe servita

per lo scioglimento delle parti grasse, per l’ottenimento dello strutto, per

mettere a bagno i salami. Era questa un’operazione che richiedeva dalle

5 alle 6 ore, con una bollitura molto bassa, per evitare che le parti fi ni si

attaccassero sul fondo, conferendo allo strutto uno sgradevole sapore di

bruciato. Dopo questo lungo tempo di cottura, i grassi non rilasciavano

più liquido, e perciò venivano tolti e spremuti, ricavando i caratteristici

ciccioli (sunsín o garísuli).

Tra le altre cose, nei preparativi si provvedeva ad affi lare i coltelli per

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la selezione e il taglio delle carni e per la rasatura del crine che ricopriva

la pelle dell’animale. Si pulivano le due pertiche, rigorosamente di acacia,

lunghe 5 o 6 metri, e del diametro di 8 – 10 cm, che venivano poi fi ssate al

soffi tto ad un metro e mezzo di distanza l’una dall’altra, e servivano per

appendervi le fi le dei salami. Si allertavano quattro o cinque uomini per

il giorno fi ssato per la macellazione. E molto importante era garantirsi la

presenza di due o tre esperti nella preparazione e lavorazione dei salumi.

Infi ne, il giorno precedente, si provvedeva a legare le due o tre caldaie

necessarie ad una robusta barra di legno, sorretta alle estremità da due

cavalletti. Sotto le caldaie un abbondante strato di fascine, e accanto pez-

zi di legno grosso per il fuoco di durata. A parte, sotto una tettoia, la cal-

daia per lo scioglimento delle parti grasse, e quindi dei ciccioli.

Infi ne, il giaciglio di morte del maiale. Uno strato di paglia con a fi anco

un ballotto di paglia o una robusta panca.

Lì accanto due schësi (letteralmente, schegge): erano dei quarti od ot-

tavi di tronco di albero della lunghezza di 150 – 180 cm, che sarebbero

servite ai fi anchi del maiale morto per tenerlo fermo sul giaciglio e poterlo

rasare con comodità. Naturalmente, tutti questi preparativi creavano un

clima di attesa che metteva in fi brillazione soprattutto i bambini.

Erano loro che aspettavano più di tutti questi due giorni, ponendo ai

genitori domande su domande. Erano giorni nei quali chi era in età scola-

re andava a scuola malvolentieri, pensando a tutto quello che avveniva a

casa, e pregustando allo stesso tempo il cenone che festeggiava il grande

evento, che vedeva grandi e piccoli tutti riuniti.

Il maiale, negli ultimi mesi di vita, era alimentato esclusivamente con

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farina di mais, latte e acqua, in un pastone rigorosamente caldo. Questa

alimentazione gli consentiva di ottenere il massimo sviluppo della parte

muscolare, ma soprattutto delle parti grasse, in particolare il lardo. Veni-

va fuori un lardo che, nella parte centrale della schiena, raggiungeva uno

spessore di 7–10 cm, di un colore bianco sfumato di rosa e con la classica

striscia o vena rossa. Era un lardo che, dopo un paio di mesi di adeguata

salatura, diventava tenero come il burro, e dal sapore molto appetitoso.

Quando si sapeva con esattezza il giorno della macellazione si passava

dal bottegaio abituale, a prenotare il materiale occorrente, e cioè:

– le budella salate (torto di manzo)

– i gomitoli di spago fi ne per la legatura dei salami

– il pepe in grani, che veniva successivamente rotto

– il salnitro.

Questo acquisto dava diritto all’uso gratuito della “macchina dei sala-

mi” (un tavolino alla cui estremità era fi ssata la carcassa del tritacarne),

con tutti i relativi accessori (griglie di diverse misure, imbuti di diverse di-

mensioni, la maniglia e i coltelli a croce).

Così, il mattino del giorno stabilito, quando iniziava appena ad albeg-

giare, si riempivano le caldaie d’acqua e si accendeva il fuoco sotto di

esse. Dopo una mezz’ora arrivavano gli uomini che dovevano catturare

e uccidere il maiale. L’operazione più diffi cile, e non senza pericoli, era

bloccare la bestia dentro la porcilaia, mediante uno strumento denomi-

nato ciapanàs (acchiappanaso). Era un legno lungo un metro di circa 5 cm

di diametro; ad una estremità aveva un foro dentro il quale passava una

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cordicella grossa come il mignolo di una mano, lunga 40 cm e legata da

uno stretto nodo alle due estremità, in modo da formare un cerchio. La

cordicella veniva aperta, sfi lacciata, e tra due fi li veniva collocata mezza

pagnotta di pane. Il più coraggioso tra gli uomini entrava nel porcile con

quel legno dotato di esca, cercando di far aprire la bocca del maiale per

mangiare la mezza pagnotta. Il maiale, che era a digiuno da due giorni,

accettava volentieri quell’off erta, e appena apriva la bocca, l’uomo gli fa-

ceva entrare l’anello in bocca, girando in fretta il bastone così che la parte

superiore, cioè il naso, veniva stretto dalla fune. A quel punto un altro

uomo entrava nel porcile, a dar man forte, così che il maiale veniva trasci-

nato fuori con quel bastone-trappola.

Altri quattro uomini, due per parte, bloccavano defi nitivamente il maia-

le, che veniva letteralmente trascinato verso il suo giaciglio di morte.

Così, sotto un cielo che iniziava a schiarirsi, in un’atmosfera illuminata

dalle fi amme delle caldaie, in un silenzio mattutino rotto dagli urli stridenti

della povera bestia, si stava per consumare un’autentica crudeltà.

Una volta alzato e disteso sulla panca, bloccate le quattro zampe e te-

nuta ben ferma la testa, veniva letteralmente infi lzato nella gola con un

coltello dalla lunga e stretta lama. Il sangue sgorgava con un getto rosso

cupo, fi nendo dentro una bacinella, che una titubante donna reggeva sot-

to quella fontanella.

Una parte di questo sangue era destinato alla preparazione di quei par-

ticolari salami denominati “sanguinacci”. Una parte veniva raccolta den-

tro una terrina, dove erano già stati messi pane e formaggio grattugiati:

questo, dopo essersi coagulato, era destinato ad essere tagliato a fette

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e fritto con abbondante cipolla. Tutta la scena appena descritta sarebbe

piaciuta sicuramente al pittore Ligabue e al regista Fellini.

Quando il maiale era completamente dissanguato veniva rovesciato sul

giaciglio di paglia, e bloccato con le due “schegge”. Iniziava così l’opera-

zione di rasatura. Le donne e i ragazzi, con piccoli recipienti, attingevano

l’acqua quasi bollente dalle caldaie, e la rovesciavano lentamente su una

zona del corpo. Quest’acqua serviva per ammorbidire le setole del ma-

iale, facilitando agli uomini l’operazione di rasatura. L’animale così trat-

tato diventava pulitissimo, pronto per essere squartato. Veniva usato un

rudimentale e primordiale attrezzo detto l’ampìca. Erano due pali lunghi

circa due metri e mezzo, collegati alle estremità di una traversa: il tutto

formava una specie di “u” rovesciata. Alla traversa erano fi ssati due ganci

in legno, la cui distanza uno dall’altro era regolabile. I tendini delle zampe

posteriori venivano infi lati in quei ganci, e il maiale veniva rizzato, con la

traversa appoggiata al muro e i pali che erano come piantati nel terreno

in una posizione obliqua. Così il maiale, con la pancia rivolta verso il “ma-

cellaio”, veniva squartato in due perfette metà, compresa la testa, con

l’asportazione di tutto quello che era l’interno. Il fegato, con il polmone e

il cuore, veniva appeso come un casco di banane, affi nchè gocciolasse e si

raff reddasse. Le due mezzene, portate a spalla, venivano deposte su un

gran tavolo di una stanza e lasciate lì per 5 o 6 ore a raff reddare.

Era passata così una mezza giornata; e alla sera, verso le 18.00, comin-

ciava l’opera di sezionatura da parte degli esperti (due o tre). Il mattino

seguente tutto era pronto per la preparazione dei vari tipi di salami.

Nel pomeriggio, quando la carne era tutta macinata, pronta per essere

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insaccata, qualcuno si accorgeva che mancava la…“misura dei salami” (la

prima burla). Veniva mandato il più giovane dei bambini presenti presso il

bottegaio che aveva fornito tutta l’attrezzatura. Il bambino, con un gran

sacco di juta, tutto impettito, sentendosi importante si presentava dicen-

do: “Si sono dimenticati la misura del salame, sono venuto io a prenderla”.

“Bravo, aspetta qui che te la vado a prendere” gli rispondeva il bottegaio;

il quale, fattosi dare il sacco dal bambino, andava nel cortile, metteva 4-5

bei mattoni nel sacco, che provvedeva a sistemare debitamente in spalla

al bambino. “Vai pure, e di’ agli uomini che ti ho dato la misura dei salami

più bella”. Il bambino arrivava tutto ansimante, ma anche orgoglioso. Gli

altri bambini più grandicelli, conoscendo già lo scherzo per esserci passati

anche loro, erano tutti in fremente attesa, trattenendo a fatica le risate.

Uno degli uomini dicendo: “Vediamo un po’ che bella misura dei salami ti

hanno dato”, rovesciava il sacco in mezzo alla stanza. A questo punto i

ragazzi scoppiavano in una fragorosa risata, e qualcuno accennava anche

a un leggero applauso.

Il bambino non gradiva aff atto lo scherzo e, mortifi cato, col magone, si

accucciava in un angolo come un cane bastonato. Veniva consolato dicen-

dogli che l’anno prossimo sarebbe stato mandato un altro a prendere la

misura dei salami; così anche lui si sarebbe divertito. Questo faceva sì che,

già pregustando la “rivincita”, si acquetasse.

Intanto in cucina le donne cominciavano a preparare pietanze e mani-

caretti, per far sì che il cenone fosse quel gran pranzo da tutti atteso da

diverse settimane. Era anche un momento celebrativo della concordia e

armonia familiare.

Page 67: Storia della cucina vercellese

65

In questo contesto assumeva invece un aspetto diverso una vecchia

usanza che era defi nita: andè ciamè la part (andare a chiedere la parte).

Era un’operazione che veniva organizzata dai buontemponi, o quasi,

tutte le volte che c’era un cenone in paese.

Due erano le categorie di questi “accattoni di pietanze”: i più disinvolti

erano gruppi di giovanotti che fi ngevano sempre di andare all’accattonag-

gio per farsi una risata: partivano alla volta di qualche stalla, dove erano

presenti donne, uomini e bambini per ripararsi dai rigori invernali. Finiva-

no però sempre per mangiare fi no all’ultima fetta di carne o di salame.

L’altra categoria era quella della povera gente. Il padre tirava fuori dal

ripostiglio il cestino che la moglie usava per portargli il pranzo in campa-

gna, metteva dentro un capiente piatto, una grossa scodella e anche una

bottiglietta vuota, che i benefattori, se erano generosi, riempivano di vino.

Il padre, con un lacrimone e un groppo in gola, chiamava il più sveglio dei

suoi fi gli e, con un sorriso forzato e irreale, gli dava le istruzioni del caso:

posare la cesta vicino alla porta, picchiare leggermente, e poi scappare a

nascondersi in un angolo buio del cortile. La cesta sarebbe stata ritirata e

preparata con vari cibi; doveva attendere che venisse riposta fuori dalla

porta. A quel punto il bambino, con passo leggero, si sarebbe dovuto av-

vicinare alla cesta, prenderla e dirigersi velocemente verso casa, dove lo

attendevano in tanti.

Ricordo che nella mia infanzia, quando questa abitudine era ancora in

auge, noi bambini ospiti dei parenti, che avevano preparato il cenone del

maiale, quando sentivamo picchiare alla porta, ci alzavamo dal tavolo e

correvamo alla fi nestra per vedere chi fosse il postulante. Venivamo però

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immediatamente richiamati dalle donne per farci ritornare ai nostri posti

di tavola: anche la miseria aveva diritto ad un minimo di discrezione e di-

gnità nell’anominato.

A conclusione di questo lungo tracciato sulla civiltà del maiale, faccia-

mo alcune considerazioni di carattere nutrizionale.

Nell’immaginario collettivo, ma anche come convincimento, la carne di

maiale è da sempre considerata come un alimento particolarmente ricco

di grassi; e si è sempre ritenuto di consumarla in dosi molto ridotte nella

propria alimentazione.

In realtà, la composizione della carne di maiale si è modifi cata negli ulti-

mi quarant’anni, poiché la percentuale di grassi è scesa dal 31 al 21% circa.

Nella distribuzione dei diversi acidi grassi si rileva come il contenuto

dei grassi polinsaturi, cioè i grassi utili al nostro organismo, sono più che

raddoppiati nel periodo suaccennato.

Quindi, in questa situazione, le carni di maiale e i prodotti da essa de-

rivati possono tranquillamente entrare nell’alimentazione secondo gli

usuali schemi a rotazione, cioè alternate con altri alimenti.

Teoricamente la carne suina, per le sue caratteristiche nutrizionali, do-

vrebbe essere preferita a quella bovina.

IL MENU DEL CENONE DEL MAIALE

Anni ‘40 – zona della bassa Baraggia.

– Salame sotto grasso dell’anno precedente

– Gran bollito di costine, testina, musino, codino, ossa ben vestite,

pancetta stesa, il tutto con sale, pepe, bagnetto rosso e verde

Page 69: Storia della cucina vercellese

67

– Insalata di verze dell’orto con aglio tritato fi ne e acciughe

– Risotto nel brodo di cottura di quanto sopra, con sugo di arrosto e

abbondante formaggio grattugiato

– “Ris Neru”, o con dizione originaria “Ris e Brudà”, risotto cotto nel san-

gue di maiale

– Gran misto di frattaglie in umido (fegato, polmone, cuore, rognone,

fettine di lombo con cipolle e conserva)

– Arrosti misti (lombo, fi letto, spalla, coscia), il tutto con patate al forno

– Formaggi (gorgonzola e grana)

– Frutta (arance e frutta secca)

– Vino (era quello di tutti i giorni, della zona di Fara e Sizzano). Alla

fine del pasto, qualche bottiglia stupa, imbottigliata e tenuta per

l’occasione.

NOTE che riguardano l’ambiente contadino (anni ‘30-’40) relativamente

a pranzi e cene.

– I termini antipasto, primo, secondo, contorno, dessert, non erano usati.

– La salsiccetta, che oggi è un ingrediente immancabile nel misto delle

frattaglie in umido, a quei tempi non era conosciuta.

– Per mangiare i risotti non si usava la forchetta, ma il cucchiaio. L’uso

della forchetta iniziò nei primi anni del secondo dopoguerra, quando

arrivavano i parenti da Torino, Milano e Roma. Furono loro ad insistere

per farci usare la forchetta.

Page 70: Storia della cucina vercellese

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Page 71: Storia della cucina vercellese

69

LA PANISSA

IL TERMINE “PANISSA” E LA SUA RADICE ETIMOLOGICA

Tra leggenda, storia di costume e alimentazione, è molto probabile che

il sostantivo “panissa” derivi dal latino panicum, cioè panìco, uno dei ce-

reali poveri, assieme a sorgo, spelta, farro, utilizzati per ottenere zuppe e

focacce fi n dall’alto Medioevo dai contadini di allora. Questo pestume di

panìco era chiamato in termine dialettale o volgare panìciu. Il grano allora

era prezioso perché poco redditizio; se ne seminava un quintale per rac-

coglierne tre o quattro.

L’uso di questo panìciu andò avanti per secoli, così che, oltre che nel-

lo stomaco, entrò anche nell’immaginario collettivo, fi nché nella seconda

metà del ‘400 arrivò nel Vercellese il riso. Inizialmente il riso veniva lavo-

rato col sistema del mortaio-pillo; prima manualmente e in seguito mec-

canicamente.

Questo sistema consisteva nella percussione del risone contenuto nel

mortaio, mediante un pestello di legno con la punta di ferro, per poter

decorticare il risone.

Possiamo immaginare che prodotto ne veniva fuori…: mezzo rotto e in

buona parte semidecorticato.

Questo prodotto sostituì il panìco e venne dato ai contadini assieme

alla remunerazione per i lavori eseguiti. Inizialmente era da loro poco gra-

dito, abituati da secoli al consumo del panìco. Restò comunque il termi-

ne panìciu, con cui continuarono a chiamare questo primordiale riso. Ma

Page 72: Storia della cucina vercellese

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i mezzi di decorticazione del riso migliorarono, e verso la fi ne del 1600 si

costruirono così le prime “pilerie”. Così il riso migliorò e nacque a questo

punto un nuovo sistema di cottura del riso. Non più zuppe e polente, ma

riso prima rosolato o fritto, in lardo o strutto, e poi bagnato con brodo

fi no alla cottura. Nacquero così i primi risotti, ai quali bisognava pur dare

un nome: e il passaggio da panìciu a panìcia, paniscia, e a panissia, fu quasi

automatico.

Nacque così la panissa vercellese, la paniscia novarese, e la paniccia val-

sesiana (meno nota e preparata solo a Carnevale, talvolta con l’aggiunta

di funghi).

Questa tesi del passaggio del termine panìciu a panissa, mi è stata avva-

lorata dal professor Massimo Montanari, docente di Storia dell’Alimenta-

zione Medievale all’Università di Bologna, con il quale ho avuto uno scam-

bio di informazioni mediante fax e telefonate.

Ritengo opportuno e necessario a questo punto scrivere, seppur sin-

teticamente, quale fu l’origine del riso cotto asciutto prima, e poi fritto e

tostato.

LA COTTURA DEL RISO O STORIA DEL RISOTTO

La cottura del riso fi n dall’inizio (fi ne ‘400) ha tre elementi basiliari, che

praticamente si protrarranno fino ai tempi nostri, e cioè: il fuoco, il

recipiente e l’acqua salata.

Il fuoco cambierà col progredire della tecnologia, passando dal camino

alla prima rudimentale stufa, fi no ai moderni fornelli.

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Il recipiente, che inizialmente era un vecchio paiolo o caldaia, diventerà

poi recipiente di bronzo e in seguito di alluminio, fi no al moderno sistema

tefl on.

Non ci abbandonerà il padellame in rame, soprattutto quello indicato

per la preparazione della nostra classica panissa, più per amore della tradi-

zione che per una reale utilità.

Ovviamente nell’acqua salata, elemento rimasto tale e invariato per

secoli fi no a tutt’oggi, erano aggiunti lardo e strutto, soppiantati poi da

burro e olio.

Gli ingredienti erano verdure diverse, oppure carni di cortile (polli, ana-

tre, oche) e anche carni bovine. Il primo accostamento del riso a questi

brodi fu attraverso la semplice bollitura.

Il passaggio dal riso bollito al riso soff ritto, e poi sottoposto a “tiratura”

o brodatura, non deriva da successive variazioni o modifi cazioni del riso

bollito, come qualcuno sostiene. L’origine del risotto come noi lo cono-

sciamo oggi ha radici molto lontane.

Il primo contatto con un riso asciutto assieme ad altri ingredienti ci

deriva dalla “paella catalana”. A cavallo tra il 1500 e il 1600, durante la

dominazione spagnola, soprattutto in Lombardia, la popolazione locale

venne a conoscenza della preparazione della paella. Era preparata, allora

come adesso, con iniziale friggitura in olio di pezzi di pollo e coniglio, e

con l’aggiunta di verdure diverse; veniva quindi aggiunta acqua in quan-

tità superiore a quella del riso. Il tutto passato al forno fi no a cottura ulti-

mata, ottenendo un piatto asciutto. Questa cottura può aver ispirato fra

noi, vagamente, la preparazione di un riso asciutto. Ma non siamo ancora

Page 74: Storia della cucina vercellese

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alla tostatura, operazione irrinunciabile per la buona riuscita di un risotto.

Questo metodo della friggitura o tostatura del riso sul condimento di base

ha avuto origine in Persia con il “riso pilaf”, diff usosi poi in tutto il mondo

arabo. Arriverà fi no a noi attraverso gli assidui rapporti commerciali dei

mercanti veneziani con il mondo ottomano. La preparazione del “riso pi-

laf” prevedeva la friggitura di burro e cipolla, la successiva tostatura del

riso e l’aggiunta del brodo tutto in una volta. Il tutto passato in forno per

la cottura e la completa asciugatura. Il piatto così ottenuto veniva usato

come contorno assieme alle carni cotte nello stesso brodo usato per pre-

parare il riso.

Per amor del vero va anche detto che il sistema di friggitura era già

conosciuto tra noi fi no dal ‘400, come viene descritto dal grande cuoco

Maestro Martino da Como.

Nel suo “Libro de arte coquinaria” descrive la “ricetta per fare un soff rit-

to di carne, pippioni, polastri e capretto”. Se il Maestro Martino in questa

friggitura avesse aggiunto il riso …

Verso la metà del 1800 avvenne un fatto eclatante. Dilaga come un’epi-

demia la corsa alla preparazione di questo risotto che fa moda, ma spegne

anche tanti appetiti. La panissa diventa un piatto al quale tutti si avvici-

nano: poveri e ricchi, popolani e borghesi. Naturalmente, per i primi è un

piatto di lusso, per gli altri del tutto normale; o, per meglio dire, un piat-

to d’eccellenza, ma abituale. Succedeva spesso che tra i meno abbienti,

pur di non rinunciare al piatto di panissa, non disponendo dell’ingrediente

principale, il salame sotto grasso, ricorressero a cotenna, costine o

cotechino.

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Diventa tanto confi denziale il rapporto con questo piatto, che qual-

cuno, anzi, più d'uno, dal temperamento originale e stravagante, pensa

bene di inventarsi la propria panissa. Si instaura come una competizione

nel tentativo di superarsi a vicenda nella preparazione della panissa, arri-

vando invece a delle preparazioni anomale.

Abbiamo così la panissa dal “Giuàn di Capüsìn”, gestore di un’antica

osteria del luogo, che aveva scoperto la “panissa senza salame”; eviden-

temente aveva pensato anche a coloro che i salami non li avevano.

Altra tradizionale osteria era quella “Dal Mariu”, che sosteneva essere

la miglior panissa quella “cotta coperta”.

C’ era poi la panissa di “Nonna Angela”, che metteva il vino in due tempi,

sulla tostatura del riso e alla fi ne della cottura.

C’era poi la panissa “di cuscrìt”, dei coscritti, che la cuocevano in due

tempi, con intervalli di dieci minuti tra la prima e la seconda cottura, quasi

come in una partita di calcio.

L’entusiasmo, la mira di emergere e di mettersi al centro dell’attenzio-

ne, portò a queste stranezze, che si protrassero fi no ai giorni nostri.

Questa situazione anomala e quasi grottesca fece sì che tutti procedes-

sero “a ruota libera” nella preparazione di questo risotto senza un mini-

mo di regole e raziocinio. Questo andazzo si protrasse nel tempo e arrivò

fi no ai giorni nostri, nonostante non fossero mancate precise indicazioni

e insegnamenti.

Ancora oggi, a centocinquant’anni dalla nascita della panissa ideale

(quella di Larizzate), continua la sciocca corsa all’invenzione personale,

cercando un “distinguo inutile”. E così si dice che la panissa non ha una

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regola fi ssa, una ricetta unica, ma varia da paese a paese, e perfi no da

famiglia a famiglia.

Con un convincimento del genere…è subito panissa!

Oggi purtroppo si leggono ricette della panissa, pubblicate su libri a dif-

fusione nazionale, che sorprendono e stupiscono.

Voglio elencare qualche ricetta, ma sono tante le amenità che compa-

iono nelle seguenti: diamo la precedenza a quella che compare in un bel-

lissimo libro uscito nel 2003, con una veste grafi ca meravigliosa, con carta

patinata, fotografi e e illustrazioni a colori di grande eff etto. Edito sotto

l’egida di tre importantissime istituzioni e associazioni che operano nel

campo del riso. Vale la pena trascrivere l’intera ricetta originale:

PANISSA - RISOTTO ALLA VERCELLESE

la borsa della spesa per quattro persone:

– 300 gr di fagioli borlotti sgranati

– 300 gr di riso Baldo o S. Andrea

– 70 gr di lardo o burro

– 70 gr di salam ‘dla duja

– 50 gr di cotica di maiale

– mezzo bicchiere di Barbera

– brodo di carne

– olio extra vergine d’oliva, una noce di burro, uno spicchio d’aglio,

una foglia di alloro, una cipolla

Page 77: Storia della cucina vercellese

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PREPARAZIONE:

Cuocere a fuoco basso i fagioli in acqua bollente con 1 spicchio d’aglio

e 1 foglia d’alloro, fi nchè comincino a rompersi.

Bollite a parte la cotica del maiale e poi tagliatela a listarelle.

In un tegame soff riggete con olio e lardo pestato la cipolla tagliata sot-

tile, unite il riso e i fagioli scolati, poi irrorate con il vino e fate evaporare.

Cuocete il riso bagnando ogni tanto con il brodo di carne bollente e

aggiungete 1 mestolo di acqua di cottura dei fagioli. Aggiustate di sale e

pepe a piacere.

La prima sorpresa in questa preparazione è quella della scomparsa del

salame. E’ entrato nella borsa della spesa tra gli altri ingredienti, e non ne

è più uscito.

I fagioli, cotti “fi nchè comincino a rompersi”, e per giunta messi scolati

nel soff ritto insieme al riso, avranno il tempo di cuocere altri 15-20 minuti

assieme al riso! Così arriveranno alla fi ne esausti e disfatti, in modo che

renderanno la panissa bella “polentosa”. E poi eliminare l’acqua di cottu-

ra dei fagioli, detta in dialetto vercellese bru-üra, è un colpo mortale alla

tipicità della panissa.

Il leggero sentore di nocciola e di erbaceo, soprattutto nei fagioli fre-

schi (sgranati), conferiscono alla panissa un sapore particolarmente carat-

teristico, assieme al salame soprattutto, e al lardo.

Infi ne 300 gr di fagioli sono troppi; considerando anche i 300 gr di riso,

arriviamo a 600 gr di prodotto base per quattro persone; ma di questo

parleremo più dettagliatamente in una prossima ricetta.

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SECONDA RICETTA

Parliamo ora di un’altra ricetta, apparsa in un opuscoletto edito da un

noto ente all’avanguardia nel campo della risicoltura:

“Provvedete a mettere a bagno i fagioli verdi o secchi in acqua salata.

Trascorse 12 ore di ammollo, fate bollire i fagioli per un periodo non in-

feriore a quattro ore. Mettete i fagioli, con un salame sotto grasso, che an-

drà disfatto prima di essere messo sul riso, assieme al brodo dei fagioli”.

OSSERVAZIONI:

1. i fagioli cosiddetti “verdi” non vanno mai messi a bagno.

2. una cottura di 4 ore almeno dei fagioli farà sì che, se sono verdi,

scompariranno completamente; se sono secchi, si salverà forse

qualche pezzetto di tegumento (pelle). Nel riso, invece del brodo

di fagioli, entrerà una crema che renderà la panissa bella polentosa;

e poi, il salame cotto 4 ore almeno, assieme ai fagioli: che necessità

c’è di metterlo sbriciolato nella panissa, quando di gusto, dopo una

così lunga cottura, non ne avrà più? Servirà solo per fare quantità.

TERZA RICETTA

Questa è una ricetta che ha due autori. Uno di questi è un simpaticis-

simo personaggio, non più giovanissimo, che scrive sovente, con molto

entusiasmo. E’ un ottimista ammirevole. Però, a proposito di panissa …, è

scivolato sulla buccia dei fagioli. Ecco la ricetta dedicata a un noto perso-

naggio, ovvero come si prepara una buona panissa per quattro persone.

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– 300 gr di fagioli

– 160 gr di riso di Baraggia

– mezzo salame sotto grasso

– 30 gr di lardo e cipolla

– formaggio (quando c’era)

OSSERVAZIONI:

In questa ricetta si può andare tranquilli nel defi nirla una bella “fagio-

lata” di Carnevale, con aggiunta di riso. Partendo dal considerare che i

fagioli più usati sono i fagioli di Saluggia o i borlotti, questi hanno un rap-

porto numero-peso, che è il seguente:

– 100 gr di questi fagioli equivalgono a 180-200 semi (media 190)

Pertanto in 300 gr avremo 3x190= 570 semi per quattro persone, per

cui

– 570/ 4 =140 fagioli circa a testa. Ve lo immaginate un piatto di panissa

con 40 gr di riso e 140 fagioli? Giudicate voi, lettori…

QUARTA RICETTA

In un altro opuscoletto edito da un ente istituzionale locale, a proposi-

to di panissa si legge che nel brodo di cottura dei fagioli si deve aggiunge-

re sedano, carota, aglio, pomodoro, restando così in bilico tra la paniscia

novarese e la panissa vercellese.

Un noto ristorante-trattoria, che va per la maggiore, prepara una panissa

dando queste indicazioni: tra gli ingredienti, riso, fagioli, carota, cipolla,

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sedano, sugo di pomodoro, brodo di carne, 1 bicchiere di vino rosso, lardo,

cotenna, salam ‘dla duja, olio d’oliva, pepe, burro.

Fare un soff ritto di olio, lardo, cipolla, carota, sedano, cotica e fagioli

giustamente ammollati. Dopo adeguata friggitura, coprire d’acqua e por-

tare il tutto a cottura. A parte iniziare la preparazione del risotto friggen-

do l’olio, aggiungere il riso, tostare e bagnare con il vino. Aggiungere poi i

fagioli provenienti dal brodo di verdura, il salam ‘dla duja, il sugo di pomo-

doro, e terminare la cottura con brodo di carne; infi ne terminare la panissa

mantecando con burro e formaggio.

La sorpresa arriva con una notazione a parte, dove vien detto che il

salam ‘dla duja può essere sostituito con salsiccetta.

OSSERVAZIONI:

– la prima stranezza deriva dal fatto che vengono preparati due brodi,

uno di verdure con cotica e uno di carne.

– il brodo di verdura parte da un soff ritto della stessa, al quale vengono

aggiunti anche i fagioli ammollati. E’ un trattamento dei fagioli, seppu-

re di pochi minuti, che non rientra nell’uso corrente della friggitura.

L’aggiunta della cotica in questo brodo proprio non so spiegarmela,

perché quando le verdure, compresi i fagioli, saranno cotte, la cotica è

ben lontana dall’esserlo; e se la sua funzione è quella di dare sapore al bro-

do, ancor meno. La cotica, se cotta 5 o 6 ore almeno, conferisce al brodo

di cottura un po’ di mostosità (vedi la “pignatta” di Saluggia o la “tufea”

canavesana, che cuociono 7-8 ore). Quindi l’immissone della cotica è inu-

tile in questo caso, e vale solo come un richiamo alla tradizione popolare

Page 81: Storia della cucina vercellese

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del lontano passato. Allora veniva usata con frequenza per sopperire alla

mancanza del salame, che in certi ambienti era un bene raro e prezioso.

Un altro ristorante poco distante da Vercelli, nella preparazione della

panissa, ha qualcosa in comune con quello precedente: la tostatura, sep-

pure breve, dei fagioli ammollati, come se fossero riso.

L’altra stranezza è la brevissima cottura della cotica di maiale, nello

stesso tempo degli altri ingredienti del brodo (cipolla, brodo, fagioli…),

cioè un’ora, come indicato nel procedimento. Nessuna cotica di maiale al

mondo può cuocere in un’ora.

Poi sorprendono certi squilibri tra gli ingredienti; esempio: 280 gr di

riso con 200 gr di fagioli.

70 +70 gr di lardo per 280 gr di riso, sono un’esagerazione.

Infi ne la sorpresa dei fagioli, che non devono essere tutti aggiunti al

riso, perché il riso deve prevalere sui fagioli, regolandosi di metterne un

mestolo. Ma perché cuocerne così tanti, allora? Non si potrebbe far pre-

valere il riso sui fagioli, mettendo 100 gr di riso in più, e 50 gr di fagioli in

meno? Ma il ristoratore potrebbe sollevare una giusta obiezione, e cioè

che in questo modo otterrebbe meno sapore nel brodo di fagioli., la co-

siddetta “bru-üra”. Una soluzione, però, esiste: si ricorre al sistema del

prendere due piccioni con una fava, e cioè si usano 2 litri di acqua invece di

4, e 100 gr di fagioli anziché 200. Così i fagioli non prevarranno sul riso, e il

sapore del brodo dei fagioli sarà lo stesso.

Va anche notato che, oltre a non mettere tutti i fagioli per una ragio-

ne di equilibrio con il riso, non si potrà mettere neppure tutto il brodo di

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fagioli, perché la quantità d’acqua utilizzata per cuocere i fagioli (4 litri),

risulterà eccessiva per cuocere 280 gr di riso.

Tra le tre ricette descritte, che si caratterizzano per l’impiego delle ver-

dure, aggiungo anche quella pubblicata dalla Bonechi editrice, specializza-

ta nella pubblicazione in fascicoli settimanali. A parte l’uso delle verdure

nel brodo dei fagioli (cipolla, sedano,carote), presenta una ricetta della

panissa per 6 persone abbastanza equilibrata nel dosaggio degli ingre-

dienti, meno che nei fagioli. Per 500 gr di riso 800 gr di fagioli freschi e, se

secchi, 400 gr.

Evidentemente gli 800 gr di fagioli freschi sono da ritenersi probabil-

mente col baccello (i fagioli freschi sgranati calano mediamente del 50%).

Comunque sia, 400 gr di fagioli sono decisamente troppi, perché, come

ho già avuto modo di spiegare, trattandosi di borlotti, per 6 dosi ne ven-

gono circa 130 fagioli per razione.

Poi, a proposito del salame ‘dla duja, “così detto perché si conserva in

vasi di coccio chiamati doje, riempite di strutto, che conferiscono all’in-

saccato un gradevole sapore”, va osservato che il gradevole sapore non

è dovuto alla conservazione nei vasi di coccio, ma ha tutta un’altra prove-

nienza, che spiegherò nel capitolo. “L’importanza del salame sotto grasso

nella preparazione della panissa”.

Proseguendo nel procedimento, si legge: “Come si potrà osservare, la

panissa viene cotta come il classico risotto, con l’aggiunta poco a poco

del brodo nel riso, e non come il tradizionale risotto piemontese (?), cioè

versando tutto il brodo in una volta sul riso”.

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Intanto, non esiste un tradizionale risotto piemontese, come esiste un

tradizionale risotto milanese; e poi quel procedimento del brodo tutto in

una volta, che io sappia, si usa solo nel “risotto alla pilota”.

QUINTA RICETTA

E, dulcis in fundo, una ricetta che è pubblicata sul supplemento di un

quotidiano. Il dosaggio degli ingredienti è ben equilibrato.

Anche questa ricetta fa parte di quelle che prediligono l’impiego di

verdure: carote, sedano, cipolla abbondante, con in più una chicca: il

prezzemolo.

La solita rosolatura, il tutto versato nella pentola dei fagioli, e si prose-

gue nella cottura!

Da sottolineare positivamente l’impiego del grande Vialone nano, che

trovo per la prima volta, per la preparazione di questa panissa.

Si procede così: si frigge l’olio d’oliva, al quale viene aggiunto il salame

della duja senza pelle, ma intero; e appena sarà rosolato, bagnarlo con il

vino, farlo ridurre e a questo punto aggiungere il riso. Poi si inizia a bagna-

re con il brodo dei fagioli e verdure, fi no alla cottura ben al dente.

Tutte queste panisse descritte, oltre alle negatività indicate, hanno un

altro grosso difetto, quello della lunghezza dei tempi di preparazione. In-

dico per tutte l’ultima descritta (quella del prezzemolo), con i seguenti

tempi dichiarati.

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PREPARAZIONE: 25 minuti, più 8 ore di AMMOLLO fagioli.

COTTURA: 2 ore e 50 minuti. Diff ondendo delle ricette con questi tempi

di preparazione, credo che chi volesse avvicinarsi a questo piatto per la

prima volta, non farà altro che leggerla, metterla in un cassetto e dimen-

ticarla. Inoltre, va tenuto presente che chi scrive e diff onde ricette simili

della panissa, non si rende conto di creare solo confusione e disorienta-

mento relativamente al piatto più importante e conosciuto della cucina

vercellese, distogliendo inoltre l’attenzione da quelle che sono le ricette

storiche e tradizionali.

I VARI TENTATIVI PER FISSARE ALMENO GLI INGREDIENTI

DELLA PANISSA TIPICA VERCELLESE

Nei mesi di fi ne 2005 mi incontravo sovente all’ora della colazione pres-

so un bar del centro con Lisa Greppi delle Cascine Stra. Era l’occasione

per parlare di riso, cucina e soprattutto di panissa. Lei diceva che non si

rendeva conto del fatto che in Vercelli e dintorni, nei ristoranti, la panissa

fosse diversa da un posto all’altro, considerando questa cosa curiosa e

anomala. Il discorso si allargò e si approfondì presso la sede dell’ A.N.G.A.

in Piazza Zumaglini, associazione della quale allora lei era presidente.

Si impostò un programma operativo, arrivando a fi ssare un incontro

presso la sede dell’ Unione Agricoltori Interprovinciale. Alla riunione par-

tecipò il presidente dell’Unione Agricoltori Vercelli-Biella, dottor Quirino

Barone, e alcuni ristoranti invitati in precedenza, tra i quali il Ristorante

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Garibaldi dei Cappuccini, il Ristorante del Modo Hotel, i dirigenti del

Comitato Vecchia Porta Casale, organizzatori della Sagra della panissa, e

il sottoscritto. Lisa Greppi espose il motivo del nostro incontro, che era

quello di concordare una ricetta della panissa unica per tutta la fascia dei

pubblici esercizi.

Se si fosse raggiunto un accordo di massima, si sarebbe poi tenuto un

secondo incontro invitando pubblici esercizi, associazioni, confraternite

Pro Loco dell’hinterland vercellese. Dopo alcuni interventi vaghi e gene-

rici emerse evidente la diffi coltà di raggiungere questo obiettivo, perché

ognuno dei presenti aveva in testa la propria ricetta, alla quale non vo-

leva certo rinunciare. Alla fi ne, visto che le cose ristagnavano, decisi di

elencare quali erano secondo me gli ingredienti usati nella mia panissa, e

cioè: lardo, fagioli borlotti o scozzesi, salame nel grasso con almeno tre

mesi di maturazione, vino facoltativo. D’accordo con me si dichiararono

gli amici della Sagra della Panissa. Qualcuno sollevò l’impiego della cotica,

del pomodoro, del formaggio Grana. A questo punto, con questi ultimi

ingredienti, la seduta terminò con l’impegno di ritrovarci, cosa che non

avvenne più. Visto che passavano le settimane e i mesi, presi l’iniziativa di

combinare un altro incontro. Chiesi l’ospitalità al Presidente del Comitato

Vecchia Porta Casale, Guido Manolli, il quale si dichiarò ben lieto di ospi-

tarci e di partecipare. Invitai a questo incontro il professor Sicheri, il dot-

tor Gabriele Varalda, di Slow Food, l’onorevole Renzo Franzo e la signora

Varalda.

Queste riunioni si tennero nelle prime settimane di ottobre del 2006

presso la sede del contatto, la cosiddetta dal Mariubèl. La riunione divagò

Page 86: Storia della cucina vercellese

84

inizialmente sulla questione della D.O.P. e dell’I.G.P. da ottenere per il

piatto della panissa, ma la cosa non era possibile, perché nel novero del-

la D.O.P. o I.G.P. non era mai entrata una preparazione gastronomica. Al

massimo, a questo riguardo, si poteva arrivare all’elenco dei prodotti tipici

regionali, dove compaiono già il salam ‘dla duja assieme, ovviamente, a

moltissimi prodotti piemontesi.

Si aff rontò poi subito il discorso degli ingredienti da indicare per la pre-

parazione della panissa vercellese. Ci si accordò sul fatto di indicare soltan-

to gli ingredienti della panissa, con specifi che relative, senza però stabilire

né le dosi né il procedimento. Per gli ingredienti si tennero in molta consi-

derazione i prodotti del territorio.

Vennero così indicati i seguenti ingredienti:

– RISO prodotto nelle province di Vercelli e Biella, escludendo i risi aro-

matici, i rossi o pigmentati rossi, i neri, parboiled, integrali e semintegrali.

– CIPOLLA , tutte le varietà, esclusa la rossa.

– LARDO, fresco o salato, non il tipo aromatizzato.

– OLIO, da usare solamente per ungere il recipiente prima della

preparazione.

– SALAME, rigorosamente dl’ula, con un minimo di 3 mesi di maturazione

sotto grasso.

– FAGIOLI, secchi del tipo Borlotti o Scozzesi.

– VINO (facoltativo), se usato deve essere un rosso piemontese non

aromatico.

– POMODORO , o DOPPIO CONCENTRATO o PASSATA DI POMODORO.

– SALE DA CUCINA o DADI DI CARNE PER SALATURA.

Page 87: Storia della cucina vercellese

85

Arrivare a questo punto fu un risultato eccezionale. Si doveva a questo

punto indire una riunione dei pubblici esercizi, delle Pro Loco e di ogni tipo

di associazione o confraternita esistenti nella zona di diff usione e cono-

scenza della panissa. Ma la cosa purtroppo si fermò.

Due anni dopo, precisamente nel novembre 2008, arrivò l’iniziativa cla-

morosa proposta dal consigliere regionale Luca Pedrale, che si ripromet-

teva nel suo progetto di fare della panissa un piatto tipico nazionale.

Furono indette numerose riunioni presso il Modo Hotel, con una par-

tecipazione di addetti ai lavori non molto numerosa, considerando che

l’invito era rivolto a tutta l’area vercellese.

Dopo una decina di riunioni, durante le quali era emerso molto interes-

se riguardo a questo piatto, intervenni con queste dichiarazioni:

“Per il conseguimento del nostro obiettivo condiviso, cioè la prepara-

zione della tradizionale panissa alla vercellese, la prima cosa da fare è l’in-

dicazione degli ingredienti, tenendo conto dell’opportunità di formulare

due ricette (cosa che tra l’altro era già emersa nel corso delle precedenti

riunioni)”.

Le due ricette avrebbero dovuto rispecchiare, una l’origine nel campo

della documentazione storica, l’altra in quello della tradizione profonda-

mente popolare.

Si può quindi trarre questa conclusione, che il risultato ottenuto fi n qui

si può considerare clamoroso, poiché, dopo quasi 200 anni di confusione

di ricette della panissa, si è arrivati a concordare un elenco di ingredienti

per la preparazione di questo piatto.

E’ giunto il momento di rendersi conto che la panissa ha i suoi canonici

Page 88: Storia della cucina vercellese

86

ingredienti, e il suo modo per “gestirli” al meglio nella preparazione. La

sfi da d’ora in poi sarà fra chi, seguendo questa traccia, riuscirà a ottenere

il risultato migliore.

1ª RICETTA DELLA PANISSA ALLA VERCELLESE(tratta da documentazione storica)

• CIPOLLA: tutte le qualità esclusa quella rossa;

• LARDO: stagionato, non aromatizzato; consentito anche quello

fresco;

• SALAME: rigorosamente dl’ula; stagionato almeno 3 mesi;

• RISO: delle province di Vercelli e Biella, esclusi gli aromatici, i rossi, i

neri, i parboiled;

• FAGIOLI: Saluggia, Borlotti, Scozzesi;

• VINO: (facoltativo) rosso piemontese non aromatico;

• POMODORO: concentrato, passata di pomodoro, pomodoro fresco;

• SALE: da cucina o dadi da minestra;

• FORMAGGIO: raspà, grattugiato (facoltativo) a scelta del consumatore.

Page 89: Storia della cucina vercellese

87

2ª RICETTA DELLA PANISSA ALLA VERCELLESE(di tradizione popolare)

• CIPOLLA: tutte le qualità, esclusa quella rossa;

• LARDO: stagionato o fresco;

• COTENNE: zampini e costine di maiale;

• FAGIOLI: Saluggia, Borlotti, Scozzesi;

• SALAME: rigorosamente dl’ula, stagionato almeno 3 mesi;

• RISO: delle province di Vercelli e Biella, esclusi gli aromatici, i rossi,

i neri, i parboiled;

• VINO: (facoltativo) rosso piemontese non aromatico;

• POMODORO: qualsiasi versione;

• ALLORO, ROSMARINO, PEPE macinato al momento;

• SALE: da cucina o dadi da minestra;

• FORMAGGIO: raspà, grattugiato (facoltativo), a scelta del consumatore.

UN CHIARIMENTO NECESSARIO

Un esponente della stampa locale, nell’aff rontare l’argomento della ri-

storazione locale, non perde l’occasione per ritornare sul problema della

monodose della panissa da preparare “al momento” da parte dei ristoranti.

Ora, se mi sorprende la richiesta del summenzionato su un problema

che in fondo non esiste, mi sorprende ancora di più che nessun ristorante

della città abbia mai spiegato che preparare una sola dose di panissa “al

momento” è materialmente impossibile.

Page 90: Storia della cucina vercellese

88

Naturalmente, stiamo parlando di una panissa realizzata al massimo

livello, rispettando le regole relative a ingredienti, dosi e procedimento.

Tutto questo perchè si tratta quasi sicuramente di servirla a gente che

non la conosce e che ne ha sentito parlare come di un risotto con i fa-

gioli, piuttosto robusto, ma saporoso. Va da sé che una persona che va a

cercare un piatto con queste vaghe indicazioni è persona buongustaia e

appassionata; pertanto si deve fare di tutto per non deluderla o lasciarla

insoddisfatta. Dovendo preparare, perciò, una panissa in simili circostanze

non si deve tralasciare anche la più piccola regola.

Il dettaglio più piccolo, che la panissa ha come caratteristica peculiare,

è la preparazione in tre fasi, distribuite in due giorni:

• la messa a bagno dei fagioli nel giorno precedente;

• la cottura dei fagioli prima della preparazione del risotto;

• infi ne, la preparazione del risotto stesso.

Sarà utile ricordare che il brodo prodotto dalla cottura dei fagioli è de-

fi nito in perfetto vercellese “bru-üra di fasö”.

I fagioli mediamente hanno un tempo di cottura di circa 60 minuti; circa

il doppio del tempo di cottura della panissa stessa. Inoltre, cosa impor-

tantissima, i fagioli vanno bolliti nella stessa mattinata della preparazione

della panissa. Non vanno cotti il giorno prima per avvantaggiarsi, poiché

perderebbero quell’aroma di leggero erbaceo e sentore di nocciola, che

conferiscono alla panissa uno dei sapori caratteristici insieme a quello del

salame sotto grasso e del lardo stagionato.

Non si pensi di risolvere il problema mettendo in frigo il brodo e i fagioli

Page 91: Storia della cucina vercellese

89

cotti il giorno prima, poichè nella cottura con il riso si romperebbero tutti,

oltre alla perdita del caratteristico profumo.

Quindi è dimostrata in quanto descritto l’impossibilità della monodose.

Non si pensi di risolvere il problema aprendo una scatola di fagioli lessi.

Stiamo parlando, lo ripeto, di una panissa al “top” e non di una panissa

rabberciata!

Una soluzione che non garantisce appieno il raggiungimento dello sco-

po sta nella caratterizzazione di alcuni ristoranti che preparano tutti i gior-

ni una certa quantità di panissa con un riso adatto a poterla servire anche

un’ora dopo la cottura, sperando che i due o tre richiedenti una dose di

panissa arrivino in quell’ora, con la panissa ancora disponibile.

Bisognerebbe, altrimenti, che il ristoratore cuocesse ogni mattina tre o

quattro dosi di fagioli messi a bagno la sera precedente. Se dovesse, poi,

in qualche giorno,avanzarli anche tutti, può sempre preparare una buona

insalata accompagnata da tonno e cipolle!

C’è un altro aspetto di diffi coltà da aff rontare: la maggior parte delle

cucine delle trattorie e dei ristoranti locali non dispone di “chef professio-

nisti”, ma di cuochi casalinghi, che non sono pronti a ricevere, nel pieno

del lavoro, l’ordinazione di due o tre monodosi di panissa.

Quindi scegliete voi come volete fare; io più di tanto non posso dirvi.

Page 92: Storia della cucina vercellese

90

CONSIDERAZIONI FINALI

Panissa:

Croce e delizia,

Osannata e bistrattata,

Discussa dibattuta e chiacchierata.

Tutti questi attribuiti sono appropriati e confacenti.

Questo per dire quanto posto abbia occupato questo piatto nella men-

te e nel cuore dei Vercellesi.

Quanti discorsi fatti con enfasi nel descrivere una panissa ben riuscita!

E quanta delusione nel parlare di una panissa scadente!

A conclusione di questa lunga presentazione, resta il fatto che la

panissa ha sempre occupato e continuerà ad occupare un posto di primo

ordine nella cucina vercellese.

Page 93: Storia della cucina vercellese

91

AL SALAM D’LA DUIA O SALAM D’ULA

TRA LEGGENDA E REALTÀ:

OVVERO, SALAMINI ALLA VERCELLESE

CONSERVATI SOTTO GRASSO

Nel lontano 1668, uno sconosciuto frate benedettino, Dom Perignon,

nel convento di Hautvillers, nello Champagne, venne nominato “cellario”

(esperto nel campo enologico).

Siccome il convento era ricco di vigne, Dom Perignon profuse tutta la

sua particolare predisposizione nel campo della viticoltura, vendemmia e

vinifi cazione.

Qualche anno dopo il nostro bravo e solerte fraticello, volendo far as-

saggiare a qualche amico quel meraviglioso vino che produceva abitual-

mente, pensò di riempire qualche bottiglia tappandola con dei cilindretti

ricavati dalla particolare corteccia di quegli alberi che crescevano numero-

si nel giardino e nella campagna circostante.

Quando a primavera inoltrata Dom Perignon, curioso di vedere come

si era comportato quel vino nelle bottiglie, ne aprì una, si vide schizzare

addosso un fi otto di schiuma bianca profumatissima, mentre la bottiglia

friggeva in una miriade di bollicine. Colmò la bottiglia e la richiuse, riapren-

dola dopo qualche mese con lo stesso risultato.

Era nato, così, casualmente, lo Champagne, il più prestigioso e apprez-

zato vino del mondo.

Page 94: Storia della cucina vercellese

92

Questo era avvenuto perchè quel vino ancora giovane, tappato anzi

tempo, iniziò una silenziosa fermentazione in bottiglia.

In quegli stessi anni nelle nostre campagne un anonimo contadino era

solito allevare, ogni anno, il suo maiale. Lo faceva con la massima cura e

attenzione, nutrendolo con i migliori prodotti che la natura gli consentiva

di ottenere, come mais, frumento e quant’altro. In questo modo otteneva

sempre delle carni che, sia nelle parti magre sia nelle grasse, erano mera-

vigliose, belle, sode e profumate; tagliate a punta di coltello nella prepara-

zione dei salami risultavano sempre di qualità eccelsa. Però la sua famiglia

doveva consumare anche le parti meno nobili, quelle che oggi vengono

defi nite “il quinto quarto”, e cioè la testa, gli zampini, gli ossi spolpati;

tutto conservato rigorosamente sotto sale. Queste, insieme a cotechini e

sanguinacci, costituivano il mangiare suo e della sua famiglia fi no a prima-

vera inoltrata. A quel punto cominciava a consumare meravigliosi salami-

ni; solo che la stagione calda avanzava, e con essa anche le mosche e le

vespe, che erano nemiche dichiarate di quel ben di Dio.

Doveva trovare ad ogni costo la soluzione al problema.

Siccome, come sempre accade, la necessità aguzza l’ingegno, pensò

di sistemare i suoi salami dentro a qualche vasca o bacinella, o qualsiasi

recipiente che fosse, coprendo poi il tutto con quello strutto bianchissi-

mo che gli serviva abitualmente per friggere verdure, frittate e qualche

volta anche per condire l’insalata. In questo modo i suoi salami sarebbero

rimasti riparati da mosche e vespe; ma l’idea non lo convinceva del tutto,

dovendo usare recipienti destinati ad altro uso.

Dopo qualche tempo, però, andando alla fi era di un paese vicino, notò

Page 95: Storia della cucina vercellese

93

per la prima volta dei recipienti di diverse dimensioni in terracotta fatti

a mo’ di “pera” e perfi no belli lisci nell’interno. “Questi fanno proprio al

caso mio”, pensò e ne comprò uno di media dimensione.

Nell’inverno, dopo la macellazione del maiale, ripose i salami dentro

quel nuovo recipiente, tutti in posizione orizzontale, coprendoli poi con il

bianchissimo strutto.

Pensò tra sé e sé: “Almeno così sono salvaguardati dalle maledette

mosche e vespe! E tra qualche mese potrò tirare fuori i miei salamini come

quando li ho messi sotto grasso”.

Ma non andò così, perchè dopo quattro o cinque mesi, tirando fuori

qualche salame da quel magico recipiente, percepì un profumo molto par-

ticolare, suadente e penetrante, constatando come gli stessi fossero mor-

bidi al tatto e sapidi al gusto. Il contadino aveva prodotto a sua insaputa

per la prima volta i salami sotto grasso “alla vercellese”, meglio conosciuti

come “salami della duja”.

Così il fraticello Dom Perignon e il contadino vercellese nelle loro mani-

polazioni ottennero un risultato diverso da quello che si erano proposti:

un risultato che passa attraverso la casualità.

Va tenuto in considerazione il meccanismo chimico-fi sico che ha causa-

to il cambiamento o trasformazione, e cioè:

la fermentazione alcolica dello Champagne,

la fermentazione proteica dei salamini.

Alla giusta maturazione, questo salame in una degustazione organolet-

tica e sensoriale si rileva al gusto un po’ asprigno, leggermente tannico,

Page 96: Storia della cucina vercellese

94

molto sapido, con profumi che ricordano il formaggio Grana e a volte con

una sfumatura di nocciola (vedi ghiande).

Questo salame unito a riso, cipolla, lardo, fagioli lessi darà un con-

tributo essenziale e insostituibile per la preparazione della panissa alla

vercellese.

Questo piatto tipico della cucina vercellese denota abitualmente que-

ste caratteristiche: sapido e accattivante, di una certa struttura e robu-

stezza in un esaltante insieme gustativo e olfattivo, che non trova riscon-

tro in tutto lo scibile gastronomico nazionale e internazionale. Questo

sapore ha quasi del magico, che ti attira e ti avvolge. Il vino giusto che

viene abbinato esalterà tutto in un piacere suadente.

Estimatori e seguaci di una tradizione ultrasecolare a livello di semplice

pratica alimentare e mercantile, sempre sana e leale, troveranno nelle pa-

gine seguenti quello che la scienza e la chimica scrivono ed espongono a

questo riguardo, e cioè la trasformazione avvenuta in seguito a processo

fermentativo delle parti proteiche grasse e magre.

Per dimostrare quanto sia importante l’impiego di un buon salam d’ula

è necessario partire da nozioni che ci derivano dalla scienza dell’alimen-

tazione e della nutrizione, con particolare attenzione a regole di chimica

organica.

Il salame sotto grasso deve essere preparato solo con carni suine ot-

tenute da animali allevati con prodotti della terra, soprattutto cereali. Si

ottiene così un animale con un giusto rapporto di parti magre e grasse. E

Page 97: Storia della cucina vercellese

95

sono proprio queste parti grasse che hanno allontanato in questo ultimo

mezzo secolo tanti consumatori, infl uenzati da false regole dietetiche. Al

contrario, la scienza della nutrizione considera il grasso suino il più nobile

tra i grassi animali. È pur vero che, se consumato fresco, è di diffi cile dige-

stione, ma se opportunamente trasformato in seguito a fermentazione, il

grasso diventa facilmente digeribile.

Vediamo, quindi, l’aspetto di questi in generale, partendo dal termine

che li comprende tutti: I LIPIDI.

I lipidi alimentari sono costituiti da una molecola di glicerolo (glicerina),

legato ad acidi grassi. Gli acidi grassi si dividono in due grandi branche:

grassi di origine vegetale e grassi di originale animale. Gli acidi grassi a loro

volta si dividono in:

• ACIDI GRASSI SATURI: quando gli atomi di carbonio sono legati tra

loro da un solo legame:

— ¢ — ¢ — ¢ — ¢ —

(es. acido stearico presente soprattutto nei grassi solidi: lardo, pancet-

ta, sugna);

• ACIDI GRASSI MONOINSATURI: quando due gli atomi di carbonio sono

legati tra loro da un doppio legame

— ¢ — ¢ — ¢ — ¢ —

(es. acido oleico, contenuto nell’olio d’oliva);

• ACIDI GRASSI POLINSATURI: quando due o più atomi di carbonio sono

legati tra loro da un doppio legame

— ¢ — ¢ — ¢ — ¢ — ¢ — ¢ — ¢ —

(es. acido linoleico, presente nell’olio di semi).

Page 98: Storia della cucina vercellese

96

Ritorniamo quindi al nostro salame contadino, preparato con la sua

percentuale di carni magre e grasse, confezionato e insaccato in apposi-

to budello, asciugato e leggermente essicato; il tutto in dodici-quindici

giorni. I salami vengono poi messi a dimora in appositi recipienti e coperti

da grasso fuso. Questo grasso è ottenuto da sugna (massa di grasso at-

torno ai rognoni del maiale) e da parti grasse non adatte alla preparazione

del salame. La sugna e le parti grasse vengono fuse in una lenta e lunga

cottura. Il liquido ottenuto viene fi ltrato e poi lasciato indurire. Verrà poi

reso liquido al momento della messa a dimora dei salami. La liquefazione

su esposta delle parti grasse produce i famosi ciccioli, in vercellese sunsìn,

che sono le parti non del tutto liquefatte. Per i salami messi sotto gras-

so inizia il loro mutamento. La presenza di microrganismi mette in moto

un processo fermentativo che, a diff erenza di quello del vino, non è tu-

multuoso, ma è di una fermentazione silenziosa. Questa fermentazione li

porterà, attraverso una certa trasformazione, alla “maturazione”, che si

accentuerà con il passare dei mesi (da quattro a quindici). Detto periodo

varia a seconda delle condizioni ambientali.

Questo processo fermentativo diventa un fattore di fondamentale im-

portanza ai fi ni dietetici (alimentazione razionale). Diventa dietetico so-

prattutto quel grasso che è entrato nell’impasto del salame, “pesante da

digerire”, e che ora, dopo la suddetta fermentazione, si trasformerà da

grasso saturo a grasso polinsaturo. Esso ha un contenuto di provitamine

che il nostro organismo trasformerà in vitamine vere e proprie del tipo B1

- A - E; e si sa quanto siano importanti le vitamine per la normale funzione

di tutti i tessuti epiteliali, favorendo l’accrescimento corporeo di tutti gli

Page 99: Storia della cucina vercellese

97

organismi in via di sviluppo, tutelandone l’integrità contro l’attacco dei

radicali liberi.

Questo salame appena uscito dalla sua tana cerca due compagni in-

separabili: pane fragrante, di pasta dura, e vino Barbera; probabilmente

perchè questi tre alimenti hanno in comune la fermentazione.

E come dev’essere il vino da abbinare? Un vino dal sapore ampio e son-

tuoso, con acida austerità di fondo e dai tannini fi ni. Ma certo! Un Barbe-

ra con queste caratteristiche ci darà un abbinamento al top! Si tratta di

un abbinamento per similitudine (l’opposto di quello di contrasto), che

consente il felice incontro tra i due tannini, quello fi ne del vino e quello

altrettanto fi ne del salame.

Questo salame, unito al riso, ai fagioli, alla cipolla, al lardo, darà un

contributo essenziale ed insostituibile per la preparazione della panissa

vercellese.

Una notazione interessante a proposito dell’ambiente metereologico

e climatico di maturazione. Il salame sottograsso ha un compagno di alto

prestigio che matura nelle sue stesse condizioni: il Culatello di Zibello. Il

primo matura tra le umide nebbie della pianura vercellese; il secondo tra

le nebbie della bassa parmense.

Page 100: Storia della cucina vercellese

98

Page 101: Storia della cucina vercellese

99

L’IMPIEGO DEL FAGIOLO

NELLA PREPARAZIONE DELLA PANISSA

Per noi dei paesi limitrofi , e anche per la città stessa di Vercelli, nell’im-

maginario collettivo il fagiolo ideale per la preparazione della panissa è il

fagiolo di Villata.

Questo vale soprattutto per la popolazione più anziana, in quanto si

sono quasi perse del tutto le tracce di questo fagiolo negli ultimi anni.

Avendo io dei parenti in questo paese, mi recavo alla visita cimiteriale

per la ricorrenza di Ognissanti e in questa occasione ero solito fare rifor-

nimento dei fagioli di Villata appena raccolti e puliti. Durante gli anni No-

vanta la quantità disponibile andava via via riducendosi di anno in anno,

tanto che nel 1996 riuscii a procurarmi solo mezzo chilo di fagioli. A que-

sto punto scatta il campanello di allarme! Cerco nei paesi del circonda-

rio di trovare qualche contadino disposto a seminare qualche decina di

piante in mezzo al grano turco, come si era soliti fare negli anni addietro.

Tuttavia non riuscii nel mio intento, a causa della superfi cialità, disinteres-

se, mancanza di orgoglio e di attaccamento ad un prodotto tradizionale

(quest’ultimo aspetto avrebbe dovuto interessare soprattutto i contadini

di Villata). Non mi arresi e, consapevole di essere arrivato quasi a un pun-

to di non ritorno, cioè alla loro scomparsa dalla scena se nell’annata del

2001 non se ne fossero seminate almeno una decina di piante, scrissi su

un giornale locale, facendo dapprima una descrizione tecnico-scientifi ca

di questo prodotto.

Page 102: Storia della cucina vercellese

100

Questo fagiolo che a Villata viene defi nito fasòla, è della famiglia del

tipo scozzese, gigante a forma ovale.

Il fagiolo, pianta erbacea appartenente alla famiglia delle leguminose,

si divide in due varietà: rampicante o nana. Può avere uno sviluppo deter-

minato o indeterminato.

Nel primo caso la fi oritura e la maturazione è ristretta in un breve arco

di tempo di 10-15 giorni; nel secondo caso, invece, si protrae anche in un

arco di due mesi.

Il fagiolo di Villata appartiene alla secondo categoria, ovvero rampican-

te di tipo indeterminato.

Il fagiolo ha un valore proteico ed energetico assai elevati ed è quindi

molto consigliato dai nutrizionisti. Queste caratteristiche sono assai ac-

centuate nel fagiolo di Villata ed è per questo che è considerato di alta

qualità. É coltivato esclusivamente nel comune di Villata da almeno tre

secoli, come risulta dalla lista di pitansi dal disne d’la spusa (1738).

Dopo queste note illustrative, scrissi un vero appello rivolto agli abitan-

ti di Villata, affi nchè non lasciassero scomparire questo grande prodotto

della terra vercellese. Fortunatamente il mio appello venne raccolto da

Umberto Uga, Presidente della SOMS di Villata. Così, invitato da Umberto

Uga, andai a Villata con qualche speranza. Egli mi disse di aver letto i miei

articoli e di essere in pieno accordo con me nel tentare il recupero di quel

fagiolo. Contammo i semi disponibili: 120 lui e 83 io. Si calcolò di poter se-

minare un centinaio di piante e trovammo il posto, gentilmente off ertoci

da Celestino Bellardone, che ci riservò un pezzo di terreno recintato ac-

canto al suo orto. Umberto Uga ed io concordammo di sostenere le spese

Page 103: Storia della cucina vercellese

101

al 50% ciascuno. Umberto si mise a disposizione per i lavori manuali: semi-

na, cannatura, zappatura, pulizia e raccolta. Producendo, infi ne, quattro

chili di fagioli, potevamo ben dire che la varietà era salva.

A questo bisognava cercare ulteriori appoggi: prendemmo contatto

con la Dottoressa Ricci, del Settore Servizio Agricolo della Regione Pie-

monte e successivamente ci recammo presso l’Assessorato all’Agricoltura

per un colloquio con la suddetta.

La Dottoressa Ricci ci promise di farci assistere da un organismo, che

collabora con la Regione, il CRESCO (Consorzio di Ricerca e Sperimentazio-

ne per l’Ortofrutticoltura Piemontese). Lasciammo come campione una

ventina di semi e la Dott. Ricci ci comunicò che saremmo stati contattati

dal Dott. Baudino della CRESCO: tornammo, così, fi duciosi e soddisfatti.

Dopo due mesi di attesa, non ricevendo nessun segnale in proposito,

chiedemmo un incontro con il Dott. Cavallera, Assessore all’Agricoltura

della Regione Piemonte, il quale ci fi ssò un appuntamento nel febbraio

2002, presso il Palazzo della Regione di via Giolitti. Durante quell’incon-

tro facemmo una dettagliata relazione all’assessore che ci promise il suo

pronto interessamento. Una decina di giorni dopo, infatti, ci fece telefo-

nare dalla segretaria, che ci annunciò il giorno dell’arrivo a Villata del Dott.

Baudino; ci confessò che era rimasto molto favorevolmente impressiona-

to dal campione che la Dott. Ricci gli aveva fatto pervenire. Il Dott. Bau-

dino ci indicò dove potevamo trovare le canne necessarie ad un impianto

sperimentale. Purtroppo non fu un’annata favorevole sotto il profi lo me-

teorologico e non producemmo più di venti chilogrammi. Nel 2003, l’anno

successivo, ottenemmo piccoli risultati in più. A questo punto Umberto

Page 104: Storia della cucina vercellese

102

Uga ed io ci convicemmo che il fagiolo di Villata non riusciva più a trovare

l’habitat congeniale, vedi clima, diserbanti e quant’altro. Alla fi ne della

terza campagna dovetti lasciare a malincuore il progetto per impegni

personali, mentre Umberto Uga continuò da solo in questa impresa.

Intanto, il mensile Natural tramite il suo corrispondente Gianni Genna-

ro ci pubblicò un pezzo dal titolo “I semi contati”, nel quale descrisse le

vicende relative al recupero del fagiolo di Villata.

A partire dall’anno 2005 Umberto Uga sperimentò la semina in com-

mistione e in concomitanza con il grano turco, che fungeva da tutore e

canna di sostegno al fagiolo.

I risultati furono decisamente positivi, per cui Umberto Uga si convinse

che questo era il sistema migliore per la coltivazione del fagiolo di Villata.

La storia più recente del fagiolo di Villata (anni ’30-’50) dice che furono

questi gli anni di maggior produzione di questo “scozzese gigante”; pro-

duzione che si calcola non abbia mai superato i quindici quintali annui. Ciò

nonostante la nomea di questo fagiolo era abbastanza diff usa. Era vendu-

to nei negozi “Ris e farin-a” anche nelle città di Torino e Milano, grazie alle

caratteristiche organolettiche molto apprezzate.

La produzione così limitata era dovuta al fatto che questo fagiolo non

ha mai conosciuto la coltivazione in pieno campo, ma solo nelle “perti-

nenze” di ogni singolo contadino (orto, fondo aia, piccoli appezzamenti

vicino alla casa). Questo probabilmente per due ragioni: la prima, perché

la coltivazione di questo rampicante, richiedeva un impiego di manodope-

ra notevole; la seconda, perché i contadini temevano che la coltivazione

in aperta campagna fosse facilmente soggetta a furti.

Page 105: Storia della cucina vercellese

103

Si calcola che il consumo nel comune di produzione fosse di circa 200-

300 chilogrammi annui su un numero di circa 2500 abitanti. Il resto veniva

venduto tramite qualche mediatore locale a commercianti di sementi. Il

più noto tra questi era la ditta dei fratelli Lesca, che ritirava circa la metà

della produzione e pagava, negli anni ’45 – ’50, circa 150 lire al chilo-

grammo.

Dopo gli anni Sessanta, anni della grande svolta nell’agricoltura vercel-

lese, inizia il lento inesorabile declino del fagiolo di Villata.

Prende sviluppo, sempre in questo comune, la varietà borlotto, pianta

a cespuglio con estese coltivazioni in campo, che consentivano impiego di

mezzi e attrezzature meccaniche disponibili in quel tempo. Così il fagiolo

di Villata (la fasòla), perde sempre più terreno, venendo coltivato in

Il fagiolo di Villata sta navigando sulla Sesia da 10 anni in attesa di essere coltivato nel suo

habitat congeniale, e poter così esprimere le sue qualità impareggiabili (disegno di

Giuseppe Rinaldi).

Page 106: Storia della cucina vercellese

104

minima parte da pochi nostalgici, tanto che negli anni Novanta il prodotto

arrivò a zero.

Tra quelli che non si sono mai arresi merita di essere ricordato Bellar-

done Francesco, detto “Cicano”. Anche grazie a lui possiamo dire che il

fagiolo di Villata è stato salvato.

“Grazie Cicano, grazie anche a nome di tutti i buongustai della panissa,

che aspettano questi fagioli per prepararla come una volta; perchè i fagio-

li di Villata conferiscono una marcia in più alla panissa”.

“Grazie anche all’amico Umberto Uga, che con testardaggine contadi-

na, ma con intelligenza e costanza, si è dedicato in tutti questi anni alla col-

tivazione di questi fagioli, superando mille diffi coltà e sacrifi ci. Se il fagiolo

di Villata esiste anche in piccole produzioni il merito è suo”.

È lui che ha constatato che, se il fagiolo di Villata avrà un futuro, potrà

averlo solo se coltivato in concomitanza con il granturco, che funge da

suo “tutore”.

Il fagiolo di Villata attende un secondo rilancio, che mi auguro avvenga

molto presto; anche perchè gli è stato preparato un logo che è lì che attende.

Page 107: Storia della cucina vercellese

105

LA POLENTA

Dopo aver trattato tutti gli aspetti della panissa, parliamo ora di un piat-

to caratteristico della vecchia cucina vercellese, la polenta.

“Sarebbe ora di polenta, sì proprio lei, girata nel paiolo, con il bastone

caratteristico, lungo 60 cm e liscio come una stecca da biliardo, un po’

bruciacchiato per il lungo uso che se ne è fatto”.

Se vogliamo dargli il suo nome “di battesimo”, lo chiameremo pulantìn,

vero termine dialettale, come lo hanno chiamato generazioni di gente di

campagna. Il vocabolo non ha traduzione in lingua italiana, se non “basto-

ne da polenta”.

Nella sua forma a panettone, un po’ appiattita e molliccia, generosa e

abbondante, mi richiama alla mente quelle donne dall’aspetto giunonico-

provocante. Si adatta a tanti “mangiari” ed è desiderata e apprezzata, so-

prattutto, in certe situazioni meteorologiche. Ecco perchè si dice “questo

è tempo di polenta!”; soprattutto in quelle serate “tagliate” da sferzate

di vento di tramontana con un cielo limpidissimo e un freddo cagnino, op-

pure in quelle serate di neve già ghiacciata e con quella leggera nebbioli-

na preludio della “galaverna”. L’atmosfera più indicata è, indubbiamente,

quella serale …; ché a mezzogiorno é tutta un’altra cosa.

La polenta è quasi un simbolo, quello della concordia, della fratellanza,

della convivenza spensierata e allegra; chi non recepisce questi eff etti non

è di questa “ taglia”; pertanto resta fuori dal giro.

La polenta di per sé non nutre un granché (acqua e farina), ma ha quel

Page 108: Storia della cucina vercellese

106

potere magico di creare quasi dal nulla l’atmosfera appena descritta. Chi

è ospite porti con sé un atteggiamento tra il serio e il faceto, che sarà un

buon biglietto da visita.

Tutta diversa dai suoi colleghi, spaghetti o risotti che siano, perchè

questi, in particolare oggi, sono come delle piccole sculture, ricamati con

sac à poche o spatole, ornati con gingilli vari; la polenta no! Tolta dal suo

fornello di cottura (una volta era appesa alla catena nel camino), agguan-

tando il paiolo con mano ferma e sicura, la padrona di casa la gira quasi

sbattendola sul suo piatto di servizio: l’asse rotondo con il suo manico,

che assomiglia ad un banjo. Una nube di vapore sale dal centro del tavolo,

come una benedizione per tutti i presenti.

Niente fi lo, che è troppo geometrico e scolastico nel dividerla: roba da

collegio! No, niente fi lo, ma cucchiaiate che ognuno aff onda come gran

pizzicotti nella provocante giunonica polenta. Il cucchiaio deposita il suo

carico delicatamente nella scodella piena di latte freddo, per essere stato

tutta la notte appartato, in attesa di quello stato di panna spessa come

un foglio di cartone e dal colore bruno rossiccio. Sarà questa panna che

impreziosirà il tutto: pulenta e lat, una squisitezza!

Per proseguire, la padrona di casa, che di squisitezze se ne intende pa-

recchio, ha preparato una padellata di fegato, polmone, cuore, lombo e

salsiccetta in una gran bagna di cipolle, con una punta di conserva e mez-

zo bicchiere di marsala secco.

I bambini, che sono stati fi nora bravi e tranquilli, cominciano ad agitar-

si, mandando occhiate fugaci al paiolo ancora caldo. Sanno che dentro c’è

il loro pezzo preferito: la crosticina del fondo, una vera golosità!

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La padrona di casa, conoscendo i loro gusti, appena rovesciata la po-

lenta, ha provveduto a mettere nel paiolo un bel bicchiere di latte per

ammorbidire quel ben di Dio. I bambini si avvicinano con cucchiaio e for-

chetta per staccare quel “rivestimento”, dividendoselo con qualche con-

testazione sulle dimensioni delle parti. Certo che la polenta ha del mistero

intorno a sé. Nel suo aspetto ti appare negletta, povera e un po’ rozza,

ma se le metti a fi anco il compagno giusto, si trasforma subito in una gran

dama, signora di altri tempi. In ultimo, la sua “leggerezza”: ti riempi fi no al

naso, ma dopo due ore ti senti leggero come una piuma.

E ora entriamo nel campo specifi co culinario.

Un elenco di accompagnamenti per tanti matrimoni “d’amore”, termi-

ne di Veronelliana memoria, per indicare un abbinamento al top:

• polenta e merluzzo fritto;

• polenta e merluzzo con sugo di pomodoro e cipolla;

• polenta e merluzzo al latte con fontina;

• polenta con tutti i tipi di tome e gorgonzola;

• polenta con umido di cipolle, fegato, cuore, polmone, lombo,

salsiccetta;

• polenta con tutti i tipi di pesce di acqua dolce fritti e tutte le prepara-

zioni di rane;

• un po’ meno, ma sempre gradevole, con costine e verze o con la

ciburéa; e infi ne la polenta e latte (rigorosamente di montagna);

• la polenta cumudà, quella con soff ritto di strutto freschissimo, latte,

formaggio e un po’ di pepe: è poco conosciuta ma, gradita a tutti quelli

che l’assaggiano;

Page 110: Storia della cucina vercellese

108

• per i bambini soprattutto, quella tagliata a fette e fritta in padella il

giorno dopo e zuccherata.

Viene usata anche in una esclamazione: “Oh santa polenta!”.

A questo punto bisogna chiudere e pensare ad altro.

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UNA CELEBRAZIONE DEL RISOTTO

IN BRODO D’OCA CON LE VERZE

Era abitudine in passato off rire questo piatto insieme all’altro, semplice

ma tradizionale, dell’oca con le verze.

Era il menu fatto preparare dal proprietario terriero al suo fi ttavolo

quando, dopo San Martino, andava a pagare l’affi tto dei terreni.

Erano mazzetti di biglietti di banca che venivano estratti da quei grandi

portafogli a fi sarmonica e contati con estrema attenzione su quel tavolo

già imbandito.

Se l’annata era stata buona il pranzo si protraeva lungo in una atmo-

sfera di giovialità e allegria con tutta la famiglia ospitante. Diversamente,

sarebbe stato un pranzo amaro per il povero fi ttavolo.

Partivano di buon mattino, quando l’alba cominciava a irrorare di luce

tenue il nuovo giorno che si annunciava. I bambini imbacuccati per riparar-

si delle prime brume novembrine già pregustavano con gioia questa gita

in carrozza, con pranzo fuori casa, che per loro rappresentava una giorna-

ta inusuale, di evasione e spensieratezza. Davanti a loro si spalancava un

nuovo giorno, ma soprattutto una nuova vita: quella di futuri coltivatori

di riso; vita che ha segnato per secoli la civiltà di una terra e le sue genti.

In Italia, ma soprattutto in Piemonte e Lombardia, l’allevamento

dell’oca e il suo consumo ha origini antichissime: è attestato fi n dal tempo

ellenistico e dall’antica Roma. Ebbe il suo periodo di massimo splendore

dalla metà dell’Ottocento alla metà del Novecento.

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In questo periodo, oltre che per le carni, l’oca era allevata per il suo fi ne

piumino, apprezzatissimo per il corredo delle spose (cuscini e materassi).

L’oca in cucina trova la massima esaltazione se preparata con le ver-

ze, dell’orto possibilmente (soprattutto se sono già state brinate, risul-

teranno più croccanti e saporite). Il dolce della verza con la carne dolce

dell’oca ci dà un accostamento perfetto, tenendo conto anche del fatto

che il sapore caratteristico della verza alleggerisce il gusto un po’ grasso e

impegnativo dell’oca.

Un consiglio: non preparate l’oca e verze con la polenta; verrebbe com-

promesso tutto quanto descritto.

Il risotto cucinato nel brodo d’oca con le verze segue lo stesso profi lo

dell’oca e verze, ma ha una “marcia in più”: il petto a pezzetti, preparato

con verdure, conferisce a questo risotto sapore ed eleganza. Un risotto

che tocca l’apice della cucina vercellese. Oggi viene preparato con riso

superfi no Carnaroli o Baldo, mentre in passato ci si accontentava di Berto-

ne, Originario, Balilla. Un vino da abbinare a questo risotto è il dolcetto di

Ovada o il dolcetto di Dogliani.

Ecco la ricetta del risotto con oca e verze.

(dosi per persona)

INGREDIENTI PER IL BRODO:

• 100 gr di oca privata del petto;

• 20 gr di cipolla pulita; 20gr di carota; 10gr di sedano;

• 5o gr di verza (parte bianca), sale.

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INGREDIENTI PER IL SUGO:

• 3 gr di olio di semi di mais;

• 20 gr di cipolla (passata al mixer), 30 gr di carota, 15 gr di sedano;

• 50 gr di petto d’oca; sale.

INGREDIENTI PER IL RISOTTO:

• 100 gr di riso superfi no;

• 5 gr di olio di semi di mais, 15 gr di cipolla, 25 gr di buon vino bianco

secco.

PREPARAZIONE:

Supponendo di preparare un risotto per 4 persone, bollite per 90-120

minuti 400 gr di oca senza il petto, in 4-5 litri di acqua in pentola scoperta.

Il brodo che si ricava è suffi ciente per cuocere il risotto. Bollire a parte 200

gr di verza tagliata abbastanza fi ne; quando sarà quasi cotta passatela nel

brodo che avete liberato dall’oca giunta ormai a cottura. Portate a cottura

la verza e spegnete.

Per il sugo, tagliare il petto a pezzetti (200 gr per 4 persone) e unitelo

a 80 gr di cipolla passata al mixer, 100 gr di carota a pezzetti e 50 gr di se-

dano sempre a pezzetti. Friggere il tutto in 15 gr di olio e cuocere a fuoco

basso per 40-50 minuti, aggiungendo un po’ di brodo.

Iniziate il risotto con un soff ritto di 20 gr di olio, 60 gr di cipolla tritata.

Aggiungete il riso e fatelo tostare; bagnate con il vino e fate evaporare,

iniziate a brodare con il brodo di cottura dell’oca. A 5 minuti dalla fi ne ag-

giungere il sugo preparato con il petto e portate a cottura il risotto.

È un risotto che richiede una buona dose di formaggio grattugiato.

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Page 115: Storia della cucina vercellese

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LE RANE

Per parlare di rane sotto il profi lo gastronomico bisogna entrare ap-

pieno nella cucina tipica vercellese. Se, per conoscenza e tradizione, dob-

biamo annoverare come piatti più consumati la panissa e il salame sotto

grasso, non da meno sono da considerare le rane.

Questo batrace per secoli ha sfamato generazioni di famiglie contadi-

ne, sia per la sua versatilità nell’impiego in cucina sia per l’abbondanza di

questo anfi bio nelle nostre risaie.

A disposizione di chiunque volesse pescarle, senza la benchè minima

limitazione e senza uno straccio di permesso o autorizzazione: il tutto a

costo zero.

In queste condizioni era ovvio che per il ceto contadino costituisse ali-

mento primario e quasi unico per sei o sette mesi all’anno. Il consumo del-

la rana in cucina iniziava proprio quando erano fi nite le scorte di frattaglie,

ossa spolpate e salate, insieme a zampini e musino del maiale macellato

in inverno.

Solo i salami sotto grasso rimanevano ben custoditi in cantina: quasi da

centellinare, nelle grandi occasioni (parenti e amici in visita) o nelle grandi

fatiche dei lavori di campagna, quando le donne non avevano nemmeno il

tempo di accendere il fuoco.

Quando invece il lavoro concedeva un po’ di respiro, ecco entrare in

cucina la rana: fritta, in frittata, in carpione (con aceto, vino, aglio e salvia),

rane in guazzetto con cipolle e pomodoro, rane al verde con bietine e

Page 116: Storia della cucina vercellese

114

prezzemolo; e infi ne il risotto con le rane in varie versioni...: una vera

specialità!

Tutte preparazioni che non disdegnavano aff atto una gustosa polenta

come accompagnamento.

Certo gustosa e saporita questa polenta, perchè proveniente da colti-

vazione biologica: allora tutto era ecologico! Sono piatti, questi, che con-

feriscono alla nostra cucina sostanza e ricercatezza, eleganza nel sapore,

avvolto nei profumi della memoria.

Il binomio della cucina tipica vercellese, connotata soprattutto da que-

sti piatti di rane, è semplicità e genuinità nel rispetto della natura.

Queste sono le prerogative della cucina mediterranea.

I professori Roberto Sindaco e Franco Andreone, studiosi di fauna sel-

vatica, indicano 11 specie di rane conosciute nel territorio italiano. Due di

queste popolano le nostre risaie: sono la rana lessona e la rana hyla. La

prima è quella a chiazze verdastre, la seconda a chiazze grigie.

Purtroppo bisogna ammettere che la qualità della carne delle rane di

oggi non è più quella di 50 anni fa: questa è una mia considerazione perso-

nale, che deriva da più di mezzo secolo di consumo di rane preparate nelle

varie ricette della cucina vercellese.

Questo è dovuto all’habitat in cui vivono oggi, che non è più pulito,

sano e naturale come un tempo. Quello che preoccupa maggiormente è

la quantità che purtroppo è scarsa; e questo, ovviamente è la causa dei

prezzi elevati.

Quando correvano i tempi dell’abbondanza delle rane in cucina, il vero

Page 117: Storia della cucina vercellese

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modo per dimostrare di apprezzarle, era quello di consumarle interamen-

te, ossicini compresi.

Fin da piccoli si imparava a consumarle così; al massimo si scartavano

gli ossi delle cosce (i più grossi); e chi, ospite invitato occasionalmente, nel

mangiare le rane faceva il mucchietto degli ossicini sul bordo del piatto,

non era considerato un buongustaio estimatore di rane.

Era la stessa cosa di chi fosse stato servito di un bel pezzo di cappone

bollito e fumante e si mettesse a togliere tutta la pelle.

Oggi, parlando di rane di casa nostra sul piano del costume e della tradi-

zione, si potrebbe parlare della fi ne di un’epoca: epoca nella quale la “ca-

pitale della rana” era considerata la piccola borgata alle porte di Vercelli, i

Cappuccini. Qui, per decenni, ogni famiglia era legata al mondo della rana:

dalla pesca al commercio, alle preparazioni gastronomiche, fi no alla scuo-

la della pesca con la canna, trasmessa dalle donne anziane alla giovinette.

Ora i Cappuccini hanno perso questo primato. Molto intelligentemente,

però, hanno salvato questo retaggio storico con la celebrazione del “rana

day”. Nella prima settimana di settembre di ogni anno ai Cappuccini or-

ganizzano una sagra, dove, tra musiche, canti e pranzi, non disdegnando

gare sportive e rassegne culturali di vario genere, fanno rivivere tempi

passati e parte della nostra civiltà contadina.

Ora i pescatori di rane sono altrove; in piccoli paesi e cascine della Ba-

raggia, che non sono come i Cappuccini altrettanto noti, anche perchè

un po’ di segretezza oggi è d’obbligo, data la diffi coltà che si incontra nel

reperire queste benedette rane nostrane.

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In questa rete un po’ ovattata e misteriosa esistono almeno una decina

di pescatori e pescatrici, che si fanno i loro 100-150 kg a testa ogni anno.

Ciò dimostra che il problema esiste e sta tutto nella insuffi ciente quan-

tità di rane pescate rispetto alla richiesta, da parte della ristorazione in

particolare. Qui la legge della domanda e dell’off erta impone le sue ferree

leggi come per tutti i beni di questo mondo.

Il prezzo di 25 euro al kg per le rane pulite (escluse le piccole) è un

prezzo appena remunerativo per chi deve stare alcune ore per pescare un

kg di rane. Questo, però, è un prezzo troppo elevato per i ristoratori, che

sono costretti a mettere in carta prezzi molto sostenuti, ma appena remu-

nerativi anche per loro. Gli aff ezionati e golosi avventori, così, le ordinano

due o tre volte all’anno, “tanto per togliersi la voglia”, come si usa dire.

Questo stato di cose venne denunciato qualche anno fa da chi era sen-

sibile al problema della tradizione gastronomica locale. Il problema venne

recepito dall’Amministrazione Provinciale, che ne rilevò anche l’aspetto

ambientalistico ed ecologico, nel quale la rana è un importante elemento.

Così, organizzato dalla Provincia, si tenne il 29 ottobre 2004 un importan-

te convegno nazionale dal titolo: “Le rane in risaia: tradizione, scienza e

risorsa”.

Scienziati, studiosi ed esperti aff rontarono l’argomento sotto tutti gli

aspetti. In conclusione del dibattimento vennero indicati quali potevano

essere gli interventi in risaia, onde salvare ed incrementare le rane.

Gli interventi suggeriti si richiamavano tutti al vecchio e tradizionale

sistema di coltivazione del riso: l’aratura primaverile e non quella autun-

nale; la gestione delle paglie e delle stoppie lasciate sul terreno, quale

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117

protezione delle rane nel periodo invernale; il sistema delle siepi ai bordi

dei fossi e dei canali.

Io vedo la tutela e l’incremento della rana in risaia in un modo molto

semplice e chiaro, ovvero: creare delle “riserve” che non siano altro che

delle risaie condotte “all’antica”:

– aratura primaverile;

– immersione continua senza asciutta;

– eliminazione delle erbe infestanti in modo manuale, come si faceva una

volta;

– lasciare le stoppie dopo il raccolto in giacitura sul terreno (ottimo rifugio

invernale per le rane).

Bisogna ricreare l’habitat naturale congeniale alla rana.

Page 120: Storia della cucina vercellese

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Page 121: Storia della cucina vercellese

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LA CUCINA POVERA

Una cucina “povera per poveri”, che ha cavalcato per secoli la tradi-

zione della civiltà contadina, ma che annovera tra i suoi piatti anche pre-

parazioni oggi apprezzate e che vengono defi nite “piatti dal profumo e

dal sapore della memoria”, era quella che preparava il pranzo e la cena

con poco e povero “materiale”, ben condito da estro e fantasia. Nella sua

semplicità aveva un grande valore aggiunto: la salubrità, la naturalezza, la

freschezza; e quindi sapore, profumo e sostanza.

Tanta parte di questa cucina traeva le sue fonti di approvvigionamento

dalla libera raccolta, dalla pesca o caccia locali. Tra le raccolte primeggiava

quella delle “erbe” di campagna in primavera e quella dei funghi in

autunno.

Prima di entrare nei particolari di questa cucina, vorrei soff ermarmi a

descrivere nei dettagli certa pesca e certa caccia che veniva praticata con

metodi primordiali che richiamavano gli arbori della civiltà.

Nelle acque basse dei fi umi (10-20 cm), lungo le piccole rapide, era pra-

ticata la pesca con le mani, cercando di catturare i pesci che si nasconde-

vano sotto i sassi oppure negli anfratti sotto riva. Questa pratica richiede-

va una certa abilità, che pochi avevano (molto più facile quella delle rane,

con le mani nelle risaie appena allagate).

Un altro sistema di pesca era quello di gettare un grosso sasso sopra il

sasso dove si era rintanato il pesce. Quasi sempre veniva catturato perchè

rimaneva intontito o ferito.

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La pesca primordiale più redditizia era quella della “asciutta”, che veni-

va praticata dopo che erano state tolte le acque nei canali, rogge e fossi di

irrigazione delle risaie (agosto).

I pesci dei fossi si raccoglievano sotto i ponticelli perchè lì, nella

“tomba”, il fondo era sempre più basso di quello del corso dei fossi; e

pertanto il maggior livello d’acqua off riva loro un rifugio per sopravvivere.

L’operazione di cattura dei pesci avveniva in questo modo:

veniva costruita una diga un paio di metri a monte della “tomba” con

terra, sassi e rami, in modo da bloccare il piccolo rigagnolo che ancora

defl uiva. Stessa diga veniva costruita qualche metro a valle della “tom-

ba”. In quel piccolo laghetto, antistante la diga a valle, si piazzavano due

ragazzi muniti di ventola (ventilabro-galoscia), una specie di pala molto

simile a un grosso cucchiaio (arnese usato per ammucchiare i cereali sulle

aie). I ragazzi con una certa lena buttavano l’acqua oltre la diga in modo di

asciugare il tratto compreso tra le due dighe. Era un lavoro molto faticoso

perchè andava fatto il più velocemente possibile, in modo da lasciare i

pesci “contenuti” fra le due dighe all’asciutto, prima che la diga a monte

cedesse. Man mano che il livello dell’acqua si abbassava i pesci comincia-

vano a sguazzare e lì ci si rendeva conto se la pesca sarebbe stata abbon-

dante o meno. Con una rete a imbuto si cominciava a catturare a monte e

a valle tutto il pesce possibile; ma il grosso del pesce si raccoglieva sotto il

ponte, dove l’acqua, essendo ormai alta solo 10-15 cm, permetteva ai pesci

un movimento limitato.

A questo punto il più coraggioso, o presunto tale, munito di colino a

rete si infi lava sotto il ponte, il cui tubo non era mai alto meno di 70-80

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cm. Procedendo carponi, cercava di catturare il maggior numero di pesci

possibile e, dopo aver percorso i 4-5 metri della lunghezza del ponte, usci-

va con l’applauso degli astanti con il retino quasi pieno. Erano circa 5 - 10

kg di pescato: meravigliosi cavedani, carpe, il persico, che per il suo alto

contenuto di lische veniva sempre scartato pur avendo una carne gusto-

sissima. C’erano, inoltre, qualche tinca, barbi e, talvolta, anche qualche

piccola anguilla.

La battuta di pesca era fi nita: si tornava a casa come trionfatori. Per

quanto riguarda la spartizione del bottino, qualcuno si chiamava fuori;

così i restanti portavano a casa una quantità maggiore. La volta seguente,

probabilmente, le parti sarebbero state invertite, ma non vi erano mai di-

scussioni per la spartizione.

Tra i detentori del pescato c’era chi, avendo già la prenotazione da par-

te di qualcuno in paese, non aveva diffi coltà a tramutare il tutto in un gruz-

zoletto. Gli altri, invece, sapendo di avere scorte di cucina e di cassa piut-

tosto basse portava a casa la cosiddetta fricia. Questo termine è sempre

stato incerto nel suo signifi cato; molto probabilmente voleva intendere

una piccola pescata da friggere.

Quel pesce, infatti, dopo essere stato pulito e lavato, veniva passato in

farina di meliga macinata fi ne e poi fritto in padella in olio di ravizzone e

accompagnato da una gran polenta.

Era un mangiare ricco di sapori e profumi, che rendeva una serata feli-

ce a gente semplice e modesta.

Una polenta con pesci freschi di acqua dolce fritti in padella era vera-

mente una squisitezza.

Page 124: Storia della cucina vercellese

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Le operazioni testé descritte relative alla pesca “selvaggia” inducono

a qualche considerazione e rifl essione sotto l’aspetto sociologico e psico-

logico.

Cosa poteva rappresentare per dei ragazzi di 13-14 anni se non l’evasio-

ne e l’avventura, caratterizzate dalla brama della cattura predatoria, insita

nella natura dell’uomo fi n dalla sua origine?

Il “raccolto” dell’operazione passava in second’ordine, anche se l’utile

connesso aveva la sua importanza; ma veniva dopo.

Una caccia intrisa di crudeltà era l’asportazione dei piccoli dal loro nido.

Si trattava soprattutto di corvi e gazze. Queste prede non avevano com-

mercio: erano operazioni eseguite da poveracci, quando a casa si rischiava

il pranzo e la cena.

Richiedevano grandi arrampicate su alberi di alto fusto, prima per con-

trollare il numero e lo stato di sviluppo; poi, nei giorni successivi, l’aspor-

tazione vera e propria.

Appena arrivati a casa, la soppressione, la piumatura e tutto il resto;

fi no ad entrare in una padella con abbondanza di cipolla e pomodoro e

l’immancabile polenta.

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LA CATTURA DEI PASSERI

Negli anni che vanno, grosso modo, dal 1930 al 1960, la civiltà conta-

dina della risaia raggiunge il suo massimo splendore. Dopo questa data

subirà un profondo cambiamento con l’avanzare del tecnicismo e della

chimica, che stravolgeranno il mondo agreste del passato.

Relativamente a quel periodo, si prenderà in considerazione il rapporto

tra l’uomo (soprattutto i giovani) e l’avifauna, cioè tutto quello che era il

mondo locale dei volatili. Questo era un rapporto che si esprimeva attra-

verso l’ammirazione visiva delle varie specie di uccelli per la loro forma,

piumaggio, per il loro cinguettio e il loro modo di nidifi care.

L’incanto visivo cadeva quando subentrava la crudeltà predatoria del-

la caccia, poiché l’estimazione e la considerazione che l’occhio ne faceva

non era altrettanto supportata dal sentimento.

Solo un volatile si salvava: la rondine, che era considerata quasi sacra.

Ci dicevano che la rondine è un uccello mandato dal Signore; e quando si

trovava una rondine morta, perchè fulminata o uccisa da rapaci, veniva

seppellita nell’orto.

A questo punto parleremo della cattura dei passeri.

Quest’uccello, tra tutti i volatili, era quello più numeroso. Questo con-

viveva quasi con la gente del posto, in quanto mangiava nelle aie, negli

orti, nei cortili con le galline e dormiva nei fi enili: sembrava apparente-

mente addomesticato.

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Per questo motivo, essendo il più presente nella vita locale, era anche

il più cacciato.

I sistemi di cattura dei passeri erano diversi: l’uso delle trappole, l’uso

dell’asse, l’uso delle reti davanti alle gronde dei fi enili, e la cattura all’inter-

no dei magazzini di cereali.

Il sistema della trappola prevedeva trappole color rame a forma di due

semicerchi tenuti aperti da una astina di fi lo ramino che si appoggiava sot-

to la molla, coperta da un sottile strato dei chicchi di meliga. La trappola,

ovviamente, scattava e si chiudeva catturando il passero, quando esso

beccava l’esca di meliga.

Il sistema dell’asse si usava in inverno dopo abbondanti nevicate. Que-

sto prevedeva la pulitura di un paio di metri quadrati sull’aia, dove si spar-

geva della mondiglia e tritume di fi eno per contrastare il colore della neve

circostante; sopra il tutto veniva sparsa un’abbondante manciata di chic-

chi di meliga.

Veniva piazzato un asse, delle dimensioni dello spazio preparato, tenu-

to inclinato da un fi lo che partiva dal bordo superiore e legato ad un’altra

estremità ad una distanza di circa 20 metri. Una volta che i passeri veniva-

no attirati dall’esca, il fi lo veniva tagliato e i volatili rimanevano bloccati

sotto l’asse: dopodiché venivano raccolti dal cacciatore.

La cattura con le reti veniva eff ettuata, sempre nel periodo invernale,

dopo il crepuscolo, cioè nel momento in cui i passeri si infi lavano nelle

gronde dei fi enili per andare a dormire. La rete era a forma rettangolare e

fi ssata alle due estremità con dei bastoni di circa tre metri. Due cacciatori

si posizionavano davanti alla gronda del fi enile, uno con la rete aperta in

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posizione di cattura, mentre il secondo batteva contro la grondaia per far

uscire i passeri.

Una volta usciti, il primo cacciatore chiudeva la rete e i passeri erano

così catturati.

Si passava poi al lavoro più lungo, ovvero la spiumatura e la pulizia.

Le preparazioni in cucina erano diverse.

Uno dei piatti più apprezzati, ottenuti con l’utilizzo dei passeri, era un

delizioso risotto a base di ragù, ricavato dalla macinatura delle parti mi-

gliori del volatile.

Venivano anche preparati fritti in padella con cipolla, oppure con un

gran sugo di pomodoro cipolla e prezzemolo; naturalmente accompagna-

ti dalla ormai immancabile polenta. Per chi voleva fare un piatto partico-

lare, vi erano i passeri ripieni con verdure, uova e formaggio; cuciti e poi

passati con un rudimentale spiedo sulla brace del camino.

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LA CUCINA POVERA DELLA RACCOLTA

Un’elencazione dei piatti di questa cucina, raggruppati secondo pre-

parazione e consumo, potrebbe essere questa: minestre in brodo, risotti,

zuppe, frittate.

Caratteristica è la minestra di riso ed erbe primaverili raccolte in cam-

pagna, tra le quali :

• il papavero;

• il tarassaco o piscitello o bocca di leone: il tutto, in termine dialettale,

pisacàn;

• erba cicerbita, in dialetto laciarìn;

• crespino, ovvero lacët;

• la punta degli steli volubili di piante rampicanti detti lavartìs: diffi cile e

impegnativa la raccolta, in quanto, dovendosi raccogliere solo la pun-

ta, questa richiedeva molto tempo. Certo è che queste punte conferi-

vano al riso in brodo un sapore e un gusto ineguagliabile;

• i germogli di ortica (più indicati per il risotto).

Queste erbe trovano il loro habitat migliore nelle stoppie di grano tur-

co. Andavano raccolte tenere, prima della piena vegetazione primaverile.

Inoltre, assolutamente inadatte con la pasta, erano adattissime per fritta-

te, oppure passate in padella come contorno.

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128

La cicorietta era adatta per insalate con uova lesse e acciughe.

Molto preparato in inverno era il riso e cavoli (ris e vérsi) nel brodo di

ossi di maiale e pancetta. Gustosissimo, anche, il riso e rape con il burro.

Riso e spinaci, riso con verdure varie (cipolle, carote, sedano, porri, spinaci).

Riso nel brodo di rane, un classico della vecchia cucina, leggero e so-

stanzioso, soprattutto per convalescenti e puerpere.

La zuppa di fagioli con costine e pancetta di maiale.

Tra i risotti, oltre alla panissa ovviamente, il risotto nel brodo di ossi

bovini e di maiale.

Al risòt di caminànt, detto così perchè veniva preparato dai viandanti

girovaghi che si spostavano da una cascina all’altra, e che lo preparavano

alla meglio, in aperta campagna, con un pezzetto di lardo, un po’ di verdu-

ra di campi, riso, conserva e sale.

Risotti poveri, come si vede!

Tutte minestre di per sé molto saporite e appetitose. Purtroppo qual-

che volta preparate con poco condimento; e in questi casi si diceva che la

minestra era stata cundìa cun l’aria ‘d l’üs (condita con l’aria della porta).

Meravigliosa la panàda, preparata con pane secco in brodo di ossi di

bovino, cotta molto lentamente. Oggi si prepara con brodo di pollo, burro

e con abbondante formaggio grattugiato.

Tra le frittate ricordiamo quella con patate o con cipolle o con spinaci.

Classica la frittata con il salam d’ula: la famosa frità rugnüsa.

Finissima e gustosissima la frittata con i lavartìs già menzionati nelle

minestre di riso.

E il riso e latte? Quello con la zucca, o con le castagne secche o con i

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129

fagioli freschi? Quest’ultimo poco conosciuto, ma molto gustoso. E poi la

put, preparata con farina di semola cotta nel latte e tenuta molto morbida.

Tra i secondi della cucina povera, primeggia la ciburèa, ottenuta dal

quinto quarto dei volatili da cortile, che una volta era chiamata la müda.

Comprendeva la testa, il collo, le ali, le zampe, il fegato e il polmone. Ve-

niva preparata in umido con le patate e l’immancabile polenta. Meno in-

dicate per questa preparazione le verze. Non va dimenticato il sangue dei

volatili da cortile, che veniva mescolato al pane grattugiato e al formaggio

con sale e pepe, e poi arrostito a fettine. Era una vera squisitezza!

Un altro secondo molto apprezzato e preparato soprattutto in prima-

vera erano i friciulìn ad patati, preparati con patate lessate al dente, taglia-

te a pezzetti e aggiunte a formaggio grattugiato e carne avanzata tritata

e un pizzico di limone grattuggiato. Da questo impasto si ricavavano delle

frittelle, fritte in olio di ravizzone o nello strutto, molto appetitose e

gustose.

Una rarità era la müla, che veniva preparata in occasione della macella-

zione del maiale. Conservata sotto grasso veniva cotta in occasione della

Pasqua, servita aff ettata con spinaci in padella, che con la loro “dolcezza”

spegnevano il saporito della müla. Ora la müla è praticamente scomparsa:

viene preparata da qualche laboratorio, ma come un insaccato qualun-

que; la müla invece non è un insaccato, ma un “confezionato” (impasto di

salame, strisce intere di carne intercostale e strisce di lingua di maiale; il

tutto con sale e pepe).

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130

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131

MERENDE E COLAZIONI

Una colazione eccezionale, soprattutto per gli uomini al lavoro in cam-

pagna, era il lardo tirato su dalla sua salatura. Tenerissimo, tagliato a fet-

te, bianco un po’ rosato con la classica vena rossa, condito con un po’ di

pepe: ineguagliabile.

Povera, ma egualmente consumata, era la soma d’àj: si strofi nava uno

spicchio d’aglio su una pagnotta poi salata: semplice, ma molto appetitosa.

Colazioni e merende veloci erano un semplice pomodoro dell’orto con

un po’ di sale, oppure un panino con conserva, olio e sale.

Poco conosciuto era il fritùn, una specie di frittella ottenuta schiaccian-

do i fagioli lessi con un fi lo di olio e sale, oppure friggendo la frittella di

fagioli in padella.

Per i bambini molto gettonati a merenda erano i fi chi secchi, quelli in-

fi lati nel loro ramoscello, oppure quelli “di lusso”, cotti al forno con una

mandorla all’interno. Molto apprezzata a merenda era la polenta del gior-

no prima, tagliata a fette, arrostita e poi zuccherata. Molto gradite anche

le fettine di zucca fritte in padella e zuccherate.

Una preparazione speciale, soprattutto per i bambini, era la cosiddetta

“mostarda”: si otteneva facendo bollire per molte ora gli acini di uva ame-

ricana assieme a fette di mela cotogna e con molto zucchero.

Qualche volta veniva preparata anche la “povera marìana”: zucchero

e caff è macinato nel quale si intingeva il pane; ma non era molto gradita.

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132

Tra i dolci, oltre a quelli tradizionali di carnevale, il semolino dolce fritto

in padella, lo zabaione (rosso d’uovo sbattuto con zucchero e marsala), la

fugàsa, che era pane vecchio inzuppato nel latte, schiacciato e impastato

con farina da polenta, uova e zucchero e poi cotto sulla brace.

Non molto conosciuta era l’ursümà, uovo sbattuto con vino e zucchero;

bevuto freddo era un ottimo corroborante durante i faticosi lavori di

campagna.

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“IL PANE”

“… Dacci oggi

il nostro pane quotidiano”

“Ti procurerai il pane

col sudore della fronte”

Questi due versetti, il primo di fonte evangelica, l’altro di estrazione

biblica, conferiscono entrambi al pane una simbologia altamente signifi -

cativa.

… Dacci oggi il nostro pane quotidiano: è l’invocazione al Padre, per ave-

re il sostentamento attraverso l’alimento basilare, insostituibile nell’ali-

mentazione dell’uomo; ma anche la forza per poter procedere nel cam-

mino indicato da Dio.

… Ti procurerai il pane col sudore della fronte: con la cacciata dall’Eden,

per l’uomo si apre il destino terreno della fatica nel lavoro; e in questa

nuova legge la conquista del pane assume il valore di una possibile dignità

nella “condonna” del lavoro.

Provo a immaginare il pane come simbolo, bene primario, compreso

tra momenti epocali che spaziano dalle origini ai tempi nostri.

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Una delle civiltà più antiche, quella degli Egizi, lo otteneva dai cereali

ridotti in polvere e impastati con l’acqua, e poi cotti sul fuoco, facendo

assurgere quasi a divinità questo primordiale “pane”.

Nell’“Ultima Cena” Gesù, spezzando il pane e off rendolo agli Apostoli,

disse:

“Prendete, questo è il mio corpo…”. Ecco la simbologia: il pane diven-

ta simbolo del sacrifi cio divino: è questo un momento altamente signifi ca-

tivo per la Cristianità.

La moltiplicazione dei pani e dei pesci ribadisce nel miracolo il valore

del cibo quotidiano off erto da Dio: che per i cristiani, come nell’ultima

cena, ha valore di pegno di fede.

Nell’assalto ai forni di manzoniana memoria, il pane diventa per la folla

il segno dello scandalo dell’ingiustizia, molla degli eventi di Milano in rivolta.

Nelle grandi carestie medievali il pane, pur ottenuto da pestume di ce-

reali poveri, tuttavia è l’ultimo appiglio per gli aff amati disperati.

Durante l’ultimo confl itto (1940-1945) il pane subisce come un “oltrag-

gio” per quello che ha sempre signifi cato nella storia: viene distribuito attra-

verso dei punti-bollini, quasi si trattasse di una lotteria o di una riff a.

In mezzo a questi e altri eventi l’umanità ha vissuto la civiltà del pane,

dando ad esso valore sacrale, simbolico e sociale.

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ED ORA PARLIAMO DEL PANE IN CASA NOSTRA

La vecchia civiltà contadina vercellese non ha mai praticato il sistema

della cottura del pane in forni domestici. Tutti in città e campagna si sono

sempre serviti presso panetterie artigianali. Queste, soprattutto nei paesi,

concedevano anche il credito nel periodo della monda e del taglio del riso.

Erano, questi, periodi nei quali i panettieri dei paesi assumevano giova-

ni garzoni soprattutto per la consegna del pane nelle cascine.

Erano giovani robusti, volenterosi e muniti di biciclette dotate di grossi

portapacchi anteriori e posteriori.

Su questi venivano fi ssati dei cestoni ripieni di pane, che, percorrendo

stradine di campagna e stretti sentieri, provvedevano a consegnare alle

mondine sparse nelle cascine del territorio.

Ma altrettanto faticoso era il lavoro dei panettieri, che iniziava con vere

levatacce all’una o alle due del mattino. Il lavoro del bravo panettiere era

diffi cile soprattutto perché doveva operare in ambiente sempre condizio-

nato dalla situazione meteorologica e climatica: il vento, l’umidità dell’aria

e la temperatura erano fattori che solo la grande esperienza e professio-

nalità riuscivano a controllare.

Inoltre doveva operare con un giusto rapporto tra farina, acqua e lievi-

to, condizionati dai suddetti elementi metereologici.

Il pane vercellese, fi n dalla metà dell’ 800, era diviso in due categorie:

il pane ottenuto con farina di grano e quello ottenuto dai cereali più po-

veri, in particolare prodotto con farina di mais (il cosiddetto pan mélia).

Inoltre tra questi c’era il pan pistìn, ottenuto da una miscela di farina di

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136

frumento e di riso. Veniva prodotto anche, seppure in quantità limitata,

il pan d’biava, una miscela di farina di frumento e farina di segala.

Ovviamente, siccome la diff erenza di prezzo tra il primo e gli altri era

notevole, si formarono fi n dall’inizio due fasce di consumatori: quella dei

più agiati, che consumavano solo pane di frumento, e quella dei meno

abbienti, che ricorrevano soprattutto al pane di meliga. Da questi ultimi il

pane di frumento era consumato solo nelle grandi occasioni.

Le forme classiche dell’“arte bianca” vercellese erano:

– la micca, in dialetto mica* o michëta

– la rosetta, in dialetto la rusëta

– al grisiòt.

La micca era una forma rotonda, con un taglio nelle parte superiore,

che ne permetteva la lievitazione. La sua pezzatura era di circa 80/100 gr.

Se prodotta in forme più piccole, circa la metà, e leggermente condita, as-

sumeva il nome del famoso pan micòt o pan michìn. Questo era veramente

un pane di lusso.

La cosiddetta rosetta, prodotta in un unico formato, di circa 60-70 gr,

aveva nella parte superiore, come disegnata in rilievo una rosa (stampi-

no), con i suoi petali e la sua corolla centrale.

* Il termine mica era usato per la locuzione: vadagnèsi la mica (guadagnarsi la

pagnotta, cioè di che vivere).

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Aveva la caratteristica di essere ben cotta e lievitata, tanto che aveva

nell’interno una cavità più o meno estesa. Era un pane molto appetibile

proprio per la sua leggerezza. La rosetta è ancora prodotta tutt’ oggi in 3

o 4 panetterie di Vercelli.

Al grisiòt è una specie di banana, aff usolata alle due estremità. Era pro-

dotto in due versioni: quella secca e quella morbida; quest’ultima molto

richiesta dai…delicati di dentatura, che a quei tempi erano numerosi tra

gli ultracinquantenni.

Un tipo di pane che ha avuto sempre un grande successo è stato il pane

cosiddetto di “pasta dura”, che, come dice il termine stesso, era prodotto

con un impasto diverso dal solito (più sodo).

La forma più prodotta era la bèsula: una forma di pane che partiva dalla

parte posteriore con una punta larga 2 cm circa, e si allargava fi no a 7-8 cm

per una lunghezza di 15 cm: gli ultimi 5 cm venivano rivolti all’indietro sulla

forma stessa, e questa parte rivoltata assumeva una forma molto simile

al mento di una persona: così, quando qualcuno aveva un mento un po’

pronunciato, si diceva: a jà ‘na bèla bèsula cul lì!”.

Altra forma caratteristica era la treccia, che ha dato origine, nel dopo-

guerra, ai famosi “gioppini”, di produzione industriale.

Un’altra forma di pasta dura erano i “groppini”, una specie di nodo in-

crociato.

I pesi delle forme suindicate erano: la bèsula 100-120 gr, il groppino 80

gr e la treccia 50 gr. Ora il pane di pasta dura è prodotto ancora in 3 o 4

panetterie di Vercelli, ma bisogna prenotarlo.

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Nei primi cinquant’anni del secolo scorso il pane ebbe un’importanza

capitale soprattutto nell’alimentazione delle famiglie contadine. Erano

anni in cui il consumo pro capite si aggirava sui 300/400 gr al giorno. Era

sicuramente l’alimento primario nella nutrizione di quei tempi.

Il consumo del pane iniziò, a partire dagli anni ’50, un lento inesorabile

declino, dovuto soprattutto a false indicazioni dietetiche, ma anche alla

vita sempre più sedentaria.

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“PANE PER QUELLI DI OLDENICO”

Il fatto che sto per ricordare proviene da uno dei tanti racconti che mio padre mi

fece, con dovizia di particolari, quando era in vita.

Il fatto, realmente accaduto, non è fedele soltanto nei nomi dei personaggi, poiché

quelli veri si sono persi nel tempo.

Correva l’anno 1885: Eusebio, Filippo, Vittore, Giovanni e Basilio, cinque

baldi giovani di Oldenico, decisero di andare alla fi era di S. Mattia a Vercelli.

Questa fi era si teneva a fi ne febbraio nella zona del Beato Amedeo,

detta Campo di Marte.

Come la fi era dei Santi (1° novembre), anche quella di S. Mattia era una

grande esposizione di animali domestici di ogni genere: buoi, cavalli,

mucche, maiali di ogni taglia.

Erano manifestazioni che attiravano in città una grande moltitudine di

gente delle campagne circostanti.

I cinque giovani summenzionati erano dei bravi braccianti di campa-

gna, contesi dalle grandi cascine della zona.

Quell’anno, fi niti i lavori autunnali della raccolta del riso, avevano tro-

vato tutti e cinque impiego presso la ditta di Grasso Carlo-Giuseppe (mio

nonno), abbattitore di piante d’alto fusto, soprattutto di pioppi, che, dopo

essere stati abbattuti e selezionati, venivano venduti alle cartiere. Andare

alla fi era di S. Mattia per loro era un pretesto.

Non avevano nessun impegno di fare aff ari o acquisti: a questi avevano

già provveduto i loro genitori, sicuramente più esperti, in occasione della

fi era dei Santi.

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Il loro programma era quello di andare a fare un giro nella fi era per

recarsi poi in una certa trattoria che era stata loro consigliata dal fattore

del Marchese Mercurino di Albano come luogo di buona cucina a prezzo

contenuto.

Il lavoro dell’abbattimento delle piante, durato da novembre a

gennaio, aveva reso bene, in quanto, lavorando a cottimo, guadagna-

vano il doppio della paga normale.

Intorno alle 11, 00 erano tutti e cinque assaliti da un tale appetito che,

guardandosi in faccia, senza proferire parola, a passo sostenuto, presero

la strada diretta alla trattoria del “Capèl vërt”, che si trovava nei pressi del

passaggio a livello in zona Belvedere (allora non esisteva ancora il caval-

caferrovia).

Entrarono un po’ titubanti in un ambiente già pieno di avventori di ogni

genere: commercianti, mediatori, sensali, contadini, agricoltori, condu-

centi e facchini.

Un mondo variegato e spensierato, in mezzo al quale aveva buon gioco

qualche menestrello della Füria con chitarra e buona voce, e qualche ven-

ditore di stringhe e cravatte con codazzo di bambini al seguito.

Appena entrati si fece loro incontro una delle tre donne addette al ser-

vizio ai tavoli e li fece accomodare in uno dei tavoli ancora liberi. L’ambien-

te, pur nella sua modestia, aveva un che di vezzoso.

Ottima pulizia, tavoli in noce coperti da belle tovaglie a quadri rossi e

bianchi, piatti e bicchieri di una certa eleganza. Una trattoria sì, ma di tutto

rispetto.

La donna li fece accomodare, pregandoli di attendere qualche minuto,

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che sarebbe venuta a prendere l’ordinazione. I nostri, già prima di sedersi,

avevano adocchiato un cestino di pane posto in mezzo al tavolo: pane

bianco, soffi ce e profumato. Loro, un pane così, lo mangiavano, sì e no, tre

o quattro volte all’anno; il resto era polenta e tanto pane di meliga.

Non ci fu bisogno di prendere accordi, che cinque mani callose si avven-

tarono su quei “fi occhi” profumati, e in pochi minuti il chilo circa di pane

era sparito, divorato.

La donna quando si recò al tavolo, notò che il pane non c’era più, ma

fece fi nta di niente e chiese che cosa volessero ordinare.

“An fi àsc ad vin” (un fi asco di vino), disse uno, e “salàm di cul bun e

bundànt” (salame di quello buono e abbondante), aggiunse un altro; “cun

tant pan” (con tanto pane), dissero tutti insieme.

La donna arrivò con un cestino grosso il doppio del precedente, che

posò sul tavolo assieme al fi asco, mentre una giovinetta la seguiva con

un piatto enorme di profumatissime fette di salame. La cosa non sfuggì ai

vicini di tavolo che, dandosi qualche colpetto di gomito, sorridendo me-

ravigliati commentavano a bassa voce il grande appetito di quei giovani.

Dopo pochi minuti i nostri chiamarono con un gesto la loro cameriera

intenta a servire altri tavoli, e ordinarono abbondante trippa in umido, e

soprattutto tanto pane.

Questa volta la donna volle sapere qualcosa di più di quei giovani, e

chiese loro di dove fossero, e se venivano da lontano.

Filippo, il più vivace della compagnia, le rispose: “Suma d’Aunì e

iùma gnì a pé fin-a Varsé” (siamo di Oldenico e siamo venuti a piedi fino

a Vercelli).

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La donna, che aveva un pronunciato accento veneto, diede l’impressio-

ne di non capire interamente la frase. Allora Basilio, il più “acculturato”,

ripetè: “Siamo di Oldenico e siamo venuti a piedi e torneremo a piedi fa-

cendo in tutto 20 km”.

La donna annuì, e si recò in cucina per ordinare la trippa e tanto pane,

raccontando il tutto al padrone, che prese la cosa sul ridere e disse: “Ades-

so ci penso io”. Si mise in spalla un intero cesto di pane, di quelli che ar-

rivavano dalla panetteria, ed entrando in sala ripeté più volte: “Pane per

quelli di Oldenico!”, suscitando un coro di risate e di applausi che accom-

pagnarono tutta la scena.

Il padrone, che tutti chiamavano, per via della sua grossa mole,

Carlone, avvicinò una sedia al tavolo e vi posò sopra il cestone di pane,

dicendo ai cinque: “Se per caso non vi basta, di là ce n’è ancora”.

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SOMMARIO

Presentazione di Giacomo Grasso ..................................................................... 5

Presentazione di Angelo Fragonara ...................................................................7

Presentazione di Gianni Mentigazzi ...................................................................11

Le origini di Vercelli ............................................................................................ 13

La cena di Torquato Tasso ospite dei Bulgaro (1578) ...................................... 17

Lista di pitansi dal disné d’la spusa .................................................................... 36

Ricetta d’la panissa dal cüsiné dal ricet ad Larisèe quella di Virginia Galante Garrone ................................................................. 39

Il pranzo al “Leon d’oro” (1901) ....................................................................... 45

La civiltà del maiale ............................................................................................ 51

La panissaIl termine “panissa” e la sua radice etimologica .............................................. 69

Al salam d’la duja o salam d’ula tra leggenda e realtà:ovvero, salamini alla vercellese conservati sotto grasso .................................91

L’impiego del fagiolo nella preparazione della panissa ................................... 99

La polenta ...................................................................................................... 105

Una celebrazione del risotto in brodo d’oca con le verze ............................ 109

Le rane ...............................................................................................................113

La cucina povera............................................................................................... 119

La cattura dei passeri ....................................................................................... 123

La cucina povera della raccolta ....................................................................... 127

Merende e colazioni ..........................................................................................131

Il pane ............................................................................................................... 133

“Pane per quelli di Oldenico!” ..........................................................................141

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