direzione generale della traduzione – commissione...

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SOMMARIO PAG . PER CONOSCERSI MEGLIO: Intervista a Italo Rubino, Capo dell’Unità B-IT-1 (La redazione) 2 BELLA O FEDELE: Il rompicapo irlandese (Cristina Cona) 4 NUOVI CONFINI: U come Ungheria (Marco Belli) 6 CULTURALIA: Parole contro (Giulia Gigante) 13 Il giro del mondo in 320 lingue (Daniele Vitali) 15 Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo-Perdomo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: Marco Belli Grafica: A. A. Beaufay-D’Amico (Anna-Angela.Beaufay-D'[email protected]) 29 Ottobre 2004 trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

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SOMMARIO PAG .

PER CONOSCERSI MEGLIO: Intervista a Italo Rubino, Capo dell’Unità B-IT-1 (La redazione) 2

BELLA O FEDELE: Il rompicapo irlandese (Cristina Cona) 4

NUOVI CONFINI: U come Ungheria (Marco Belli) 6

CULTURALIA: Parole contro (Giulia Gigante) 13

Il giro del mondo in 320 lingue (Daniele Vitali) 15

Comitato di redazione: C. Breddy, C. Cona, R. Gallus, C. M. Gambari, G. Gigante, C. Gracci, D. Murillo-Perdomo, E. Ranucci Fischer, D. Vitali Collaboratori: Marco Belli

Grafica: A. A. Beaufay-D’Amico (Anna-Angela.Beaufay-D'[email protected])

29 Ottobre

2004

trimestrale transardennese dei traduttori italiani Direzione generale della Traduzione – Commissione europea

http://europa.eu.int/comm/translation/reading/periodicals/interalia/index_it.htm

per conoscersi meglio

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1) Al tuo rientro in Traduzione hai trovato grossi cambiamenti rispetto a quando te ne eri andato all'Amministrazione? Per la tecnica, i progressi sono stati enormi : strumenti quali il TWB, DragonDictate, Poetry, SdTVista che erano ai primi passi, lo sviluppo del SUIVI, il dossier-manager, per non parlare dei vari SIC (congé, temps, personnel) e la diffusione dell’uso di Internet hanno cambiato radicalmente il panorama tecnico della traduzione.

Sotto il profilo organizzativo, la ristrutturazione del 2003 ha apportato un grande cambiamento, ma per me, che avevo conosciuto l'organizzazione pre-1990, si è trattato di un salto indietro di 15 anni, una specie di ritorno alle origini. Ed è stato un effetto abbastanza curioso…

Un’altra differenza è la quasi scomparsa, sia a a livello di dipartimento che di unità, dei contatti con il “mondo confinante”, cioè le direzioni generali e i free-lance, riservati al planning e all’unità competente. Anche se il “divieto” di contatto è in parte solo teorico, dà una certa sensazione di isolamento.

2) Qual è l'aspetto che vorresti potenziare per rendere più efficiente il lavoro dei tuoi collaboratori? Dal punto di vista dell’efficienza tecnica, molto è già stato fatto e comunque lo sviluppo degli strumenti informatici dipende poco da noi.

Intervista a Italo Rubino, capo dell’Unità IT- 01

per conoscersi meglio

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Sono invece convinto che qualche miglioramento si potrebbe ottenere rafforzando il ruolo delle segreterie nel pre-trattamento dei documenti, sviluppando il lavoro d’équipe a livello di traduzione/revisione, generalizzandio l’uso del TWB (non tutti lo usano), particolarmente utile quando si suddivide il lavoro tra più persone.

Punto anche a un rafforzamento e un’estensione delle competenze e delle conoscenze da parte di ciascuno nelle materie attribuite alla nostra unità.

Non da ultimo, sono sempre stato convinto dell’utilità di conoscere il processo di formazione dei documenti dall’interno, cioè dal punto di vista delle DG.

3) A tuo parere ci sono strumenti che potrebbero essere migliorati, conoscenze che andrebbero approfondite o attività che potrebbero essere integrate a quella quotidiana del tradurre? Ho sempre pensato che ogni traduttore dovrebbe avere una buona infarinatura di diritto e economia e una buona conoscenza delle DG per cui lavora.

Perciò andrebbe incoraggiata l’iscrizione a corsi, seminari e conferenze organizzati sia all’esterno sia dalla DG ADMIN sia dalle DG e dovremmo organizzare noi stessi cicli di conferenze con i colleghi delle DG.

Sarebbe senz’altro utile rilanciare l’esperienza degli “stages” di nostri colleghi nelle DG per poterci fare un’idea più precisa dell’ambiente di lavoro dei nostri colleghi, delle problematiche che devono affrontare e del processo di produzione del documento.

4) Anche in base alla tua esperienza di traduttore, credi che sia auspicabile la dissoluzione dei Centri d'informazione e documentazione delle rispettive lingue?

La nostra unità si è pronunciata in blocco (me compreso) per il mantenimento dell’attività di consulenza e coordinamento in materia terminologica e linguistica all’interno del dipartimento.

È impensabile non poter disporre di un supporto così essenziale per il nostro lavoro. Ora sembra che il direttore generale l’abbia capito.

5) Parlaci un po' della tua unità Siamo in tutto 25, tra segretari/e e traduttori, distinti in tre fasce d’età: quelli/e che si potrebbero definire i “pionieri” (9), quelli/e dell’età di mezzo (9) e i “ nuovi/e arrivati/e ” (sei).

La differenza generazionale si fa sentire qualche volta su certi temi, ma c’è molto professionalismo, competenza, senso di responsabilità, capacità di mantenere un alto livello di impegno e in più, quando necessario, anche di accelerare.

Dal 1° ottobre siamo in 24 perchè la nostra collega Gabriella Argurio, che per me e per parecchi altri della mia generazione incarnava la continuità della nostra DG da quando siamo approdati alla Commissione, sarà in pensione. Approfitto di questa occasione per augurarle molte soddisfazioni anche nella sua nuova vita.

La redazione

bella o fedele IL ROMPICAPO IRLANDESE

Il centenario di « Bloomsday », giornata in cui si svolge l’azione dell’Ulisse joyciano, celebrato a Dublino il 16 giugno scorso ha offerto, tra molte altre cose, l’occasione di fare il punto sulle traduzioni sinora pubblicate. Date le caratteristiche del romanzo, che si distingue per la presenza di numerosi giochi di parole, esercizi di stile e invenzioni lessicali, nonché riferimenti alla realtà storica e sociale irlandese (spesso, anzi, specificamente dublinese) dei primi del Novecento, non è difficile immaginare che tutti i traduttori si siano scontrati con difficoltà talvolta insormontabili: se ciò è vero per le versioni nelle lingue europee, figurarsi quali problemi deve aver posto la traduzione cinese.

E non soltanto dal punto di vista linguistico: se Ulisse ha tardato tanto ad uscire in Cina, parte della spiegazione risiede nell’antipatia ideologica nutrita per lungo tempo dalle autorità del paese verso un’opera che si trovava agli antipodi rispetto ai canoni del realismo socialista: se, com’è ovvio, negli anni della rivoluzione culturale era impensabile tradurre un’opera letteraria straniera, anche successivamente non si presentava facile proporre un libro così scomodo, pessimista e ispirato a valori considerati decadenti e borghesi. Per questo motivo alla vigilia della pubblicazione, nel 1994, i traduttori, l’ex giornalista, docente universitario e scrittore Xiao Qian e sua moglie Wen Jieruo, si premurarono di mettere le mani in avanti pubblicando sulla stampa cinese una serie di articoli in cui descrivevano il processo svoltosi negli Stati Uniti nel 1933 che si era concluso con l’assoluzione dall’accusa di oscenità.

Il messaggio era chiaro: la Cina non poteva permettersi di apparire più arretrata di quanto lo fossero state le autorità americane sessant’anni prima.

E il pubblico cinese dimostrò di saperlo recepire. Ulisse venne pubblicato in 85000 copie, subito vendute tanto da rendere necessarie a brevissimo termine una seconda e terza ristampa: una cifra di tutto rispetto, se si considera che il prezzo del volume era l’equivalente della paga settimanale di un insegnante. Per i due traduttori, memori nonché vittime della repressione dei decenni precedenti (Xiao aveva tentato il suicidio nel 1957, quando le autorità, saccheggiatagli la casa e fatto un rogo di tutti i suoi quadri, lo avevano costretto a troncare l’amicizia con lo scrittore inglese E. M. Forster e a distruggere tutte le lettere inviategli da quest’ultimo; nel corso della rivoluzione culturale entrambi i coniugi erano stati inviati ai lavori forzati in una comune agricola e la madre di Wen si era suicidata), si trattava di un successo importante anche in termini di apertura al mondo esterno.

Non che Xian Qian fosse così entusiasta agli inizi del lavoro: quando era stato avvicinato da un editore cinese con la proposta della traduzione aveva anzi esitato parecchio ed era stato convinto ad accettare dalle esortazioni della moglie, molto più propensa di lui a cimentarsi con un’impresa così impegnativa. La lunghezza e la complessità dell’opera resero indispensabile a questa coppia ormai anziana (lui quasi ottantenne) una routine ferrea consistente nell’alzarsi ogni mattina alle cinque e lavorare quindici ore al giorno, riunciando a qualsiasi distrazione. In effetti una descrizione anche sommaria delle difficoltà terminologiche incontrate lascia comprendere l’enormità del compito e la tenacia con la quale i due traduttori siano riusciti a venirne a capo.

Oltre infatti alle difficoltà che il testo pone se tradotto nelle lingue che con l’inglese hanno in comune, perlomeno, l’alfabeto latino e la fonetica, nel caso del cinese si presentano problemi specifici: le basi ideogrammatiche e non alfabetiche, la particolarità di essere una lingua tonale (toni diversi non solo corrispondono, come nelle nostre lingue, ad enfasi diverse, ma cambiano anche il significato delle parole) e di possedere un numero di possibili combinazioni fonetiche molto inferiore all’inglese.

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bella o fedele Tutti questi elementi rendono estremamente arduo tradurre i complessi giochi di parole spesso oscuri anche per gli anglofoni) di cui Ulisse è così ricco, senza contare che la trascrizione dei nomi propri stranieri viene effettuata più spesso in base a criteri ideogrammatici che foneticamente, sillaba per sillaba.

Xiao e Wen consultarono un numero enorme di fonti: versioni annotate di Ulisse, vari specialisti di lingue estere, la chiesa cattolica cinese, un’altra traduzione in corso ad opera di uno studioso taiwanese, e specialmente l’ambasciata irlandese di Pechino, che chiarì per loro il significato di numerosi ibernicismi (come « blarney ») e fornì riferimenti sotto forma di libri, carte di Dublino e una videocassetta della versione cinematografica del romanzo.

Per rendere la complessità stilistica del testo i due traduttori si servirono di numerosi accorgimenti, come la trasposizione dei vari registri utilizzati da Joyce in quello che può considerarsi l’equivalente cinese. Così i monologhi interiori di Molly, Stephen e Leopold Bloom, tre personaggi di livello culturale e intellettuale assai diverso, vennero riprodotti in tre stili diversi: rispettivamente, la parlata proletaria di Pechino, il cinese classico e una lingua mista di classico e moderno che risale all’inizio del Novecento. In quanto ai nomi propri di Stephen Dedalus e Leopold Bloom, venne usata una translitterazione di sette sillabe (fonetica nel caso del primo: « Si di fen . Di da le si »), sebbene i nomi cinesi di norma ne abbiano soltanto tre. Questo numero insolitamente elevato di sillabe, unito ad altri espedienti come lo spazio fra nome e cognome, serviva ad indicare al lettore cinese che i caratteri utilizzati non dovevano essere letti come aventi ciascuno un significato a sè stante (la traduzione letterale in inglese di « Si di fen.

Di da le si » sarebbe « This-be of a fruit-fragrant. Enlighten-extend-coerce-this »), bensì come formanti un unico nome proprio: un po’ come quando, nei fumetti, certe emozioni come l’indignazione o lo stupore vengono rappresentate da un succedersi di asterischi ed

altri segni di punteggiatura ognuno dei quali, preso isolatamente, non significa nulla.

Quando i traduttori non sapevano più a che santo votarsi ricorrevano alle note a pie’ di pagina: il loro Ulisse ne contiene 5991, il numero più elevato mai pubblicato in un testo cinese. Troppe per Xian, ma sua moglie si era impuntata, ritenendole assolutamente indispensabili specialmente per rendere gli intricati giochi di parole joyciani, come ad esempio la battuta di Stephen : « If others have their will, Ann hath a way ». Il calembour, che si impernia sul nome della moglie di (« Will ») Shakespeare, Ann Hathaway, fu reso dapprima con una traduzione piuttosto letterale per essere poi spiegato più dettagliatamente in nota ; lo stesso procedimento venne seguito per il ben più complicato doppio palindromo « Madam, I’m Adam. And Able was I ere I saw Elba », che vede riunite allusioni alla Genesi, a Napoleone e all’impotenza sessuale.

Xian era convinto che, una volta raggiunta la tarda età, si dovesse fare qualcosa di monumentale, e un’opera come la traduzione di Ulisse in cinese corrisponde certo a questa definizione. A sua volta la ricompensa per il lavoro fatto è costituita da un altro monumento: nel marzo 2003 Wen Jieruo, ormai vedova, ha assistito all’inaugurazione di una statua di bronzo del marito in un mausoleo nei pressi di Shanghai.

Cristina Cona

Fonti: Cait Murphy, « Ulysses » in Chinese, in: w w w . t h e a t l a n t i c . c o m / i s s u e s / 9 5 s e p / u l y s s . h t m David Blake-Knox, Blooming brilliant, Sunday Independent, 13 June 2004

A chi ricordasse il mio articolo su Simon Stevin apparso nel numero 22 (settembre 2002) di Inter@lia, e fosse interessato a saperne di più su questo straordinario personaggio, segnalo una mostra a lui dedicata che si svolgerà fino al 30 ottobre nella Biblioteca Reale qui a Bruxelles, tutti i giorni tranne la domenica dalle 12.00 alle 16.50. Ulteriori ragguagli sul sito www.kbr.be

NOTA:

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U come Ungheria

A come Árpád, il condottiero sotto la cui guida sette tribù magiare (per l’etimologia del termine vedi alla voce ‘ungherese’) provenienti dalle steppe a nord del Mar Nero, una zona da essi chiamata Etelköz, si insediarono stabilmente nel bacino dei Carpazi verso l’896 DC. Da questa data gli ungheresi fanno iniziare la propria storia nazionale. Sulla “conquista della patria” (Honfoglalás) circolano numerose leggende, ma gli storici sembrano concordare sul fatto che a spingere i magiari oltre i Carpazi furono le continue e violente incursioni nel loro territorio da parte di tribù di bulgari e peceneghi. L’imponente monumento dedicato a Árpád (i cui discendenti regneranno sull’Ungheria fino al 1301) e a agli altri condottieri magiari (Monumento del millennio) troneggia al centro della Piazza degli eroi (Hősők tére) di Budapest. Per secoli si è creduto erroneamente che i magiari per la loro crudeltà (“De sagittis Hungarorum libera nos, Domine!” si pregava nei conventi europei del medioevo) fossero discendenti degli unni e gli ungheresi hanno sempre considerato con fierezza queste loro (presunte) origini, al punto che ancora oggi il nome Attila è tra i più diffusi nel paese.

B come Budapest, la capitale. Anche in un glossario volutamente disorganico come questo non poteva mancare una voce su Budapest. Ma cosa dire sulla capitale ungherese senza cadere nell’oleografia da depliant turistico? Proviamo a elencare un po’ di cose alla rinfusa: esistente nella forma attuale dal 1873 (a seguito della fusione di tre nuclei indipendenti, Buda, Pest e Óbuda, la “vecchia Buda”), 2 milioni di abitanti (1/5 della popolazione nazionale, una specie di Atene non controbilanciata da una Salonicco perché le altre “grandi” città ungheresi, Pécs, Szeged, Debrecen e Miskolc arrivano appena ai 200 000 abitanti), centro culturale, economico e amministrativo del paese, possiede tutti gli ingredienti per essere una “ville de charme”, collina (Buda) e pianura (Pest) divise da un fiume (il Danubio, vedi) un’isola, l’isola Margherita (due chilometri di prati, alberi, aiuole, joggers e coppiette), terme, caffè più o meno storici, grandi viali, cimiteri monumentali, uno strudel alla ricotta (il turos rétes della pasticceria Ruszwurm) che commuove... (beh, forse un depliantino me lo farebbero fare) e tutte le contraddizioni di una grande città dell’est che vorrebbe scrollarsi di dosso il passato ex-comunista (grandi e fiammanti centri commerciali, consumismo spinto, per chi se lo può permettere, nuovi ricchi e nuovi poveri – molti - , ristrutturazioni scintillanti e grandi palazzi con ancora i fori dei proiettili del 1956). Scontato dire che l’Ungheria non si esaurisce nella capitale e che sarebbe un peccato non spingersi oltre Budapest...

U come Ungheria

E come Esterházy (famiglia), per secoli una delle dinastie ungheresi più potenti, alla quale si deve il castello di Fertőd (a ovest vicino alla città di Sopron), un complesso in stile barocco-rococò, noto anche come la “Versailles ungherese” (per la Lonely Planet “the largest and most opulent summer palace in Central Europe”), in cui visse e lavorò per quasi trent’anni il compositore Joseph Haydn. E come Esterházy (Peter) uno dei più quotati (e ostici) scrittori magiari, che alla sua illustre famiglia ha dedicato un ambizioso affresco letterario, Harmonia caelestis, disponibile ora anche in traduzione italiana. Poco dopo la pubblicazione del libro Esterházy è venuto a sapere che il padre in epoca comunista era stato un informatore della polizia segreta e ha quindi scritto un seguito del romanzo che ha intitolato “edizione corretta”. Secondo molti spettava a lui il Nobel per la letteratura assegnato a Kertész.

nuovi confini

C come Compromesso (Ausgleich -Kiegyezés), l’accordo con cui nel 1867 l’Austria di Francesco Giuseppe, indebolita dalla sconfitta nella guerra austro-prussiana, accetta di dividere l’impero in due parti, di cui una sotto amministrazione ungherese (dalla Transilvania a Fiume). In comune restano solo i portafogli degli esteri, della difesa e delle finanze. Sembra avverarsi il sogno della “Grande Ungheria” a cui metterà drammaticamente fine il trattato del Trianon (vedi).

F come FIDESZ, l’alleanza dei giovani democratici, un partito politico fondato alla fine degli anni Ottanta da un gruppo di giovani oppositori del regime comunista e divenuto ora il primo partito ungherese. Curiosità: fino al 1993 per statuto l'adesione al partito era limitata agli under 35, poi anche i fondatori sono invecchiati e hanno pensato che forse era il caso di emendare il testo. Il “lider maximo”, Viktor Orbán (classe 1963, a renderlo famoso fu il discorso pronunciato alla cerimonia di riabilitazione di Imre Nagy, vedi), dopo un esordio su posizioni liberali di sinistra ha virato da qualche anno verso un aggressivo nazionalpopulismo. Dopo aver guidato il paese tra il 1998 e il 2002, è molto probabile un suo ritorno al potere nel 2006 (viste le débâcle in serie del partito socialista).

D come Danubio, “fiume della melodia, lo chiamava Hölderlin presso le sue sorgenti; linguaggio profondo e nascosto degli dei, strada che univa l’Europa e l’Asia, la Germania e la Grecia, lungo la quale la poesia e il verbo, nel tempo del mito, erano risaliti a portare il senso dell’essere all’occidente tedesco... il fiume ‘bisnominis’, come lo chiamava Ovidio, trascina la civiltà tedesca, col suo sogno dell’odissea dello spirito che torna a casa, verso oriente e la mescola ad altre civiltà, in tante meticce metamorfosi nelle quali la sua storia trova il suo compimento e la sua caduta”. (Claudio Magris, Danubio).

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I come IBUSZ. Chi ha frequentato l’Ungheria pre 1989 ricorderà sicuramente questo marchio: era l’agenzia di Stato per il turismo, punto di passaggio obbligato per chiunque cercasse un albergo, una camera “chez l’habitant” o volesse cambiare valuta. Uscita indenne, e privatizzata, dal crollo del regime comunista, la IBUSZ continua a dominare la scena turistica ungherese e ha “ampliato la sua offerta di prodotti” (noleggia auto, vende assicurazioni e vanta, sul suo sito Internet, un impressionante cash-flow….).

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K come Kádár János, il politico che nel bene e nel male ha segnato la seconda metà del XX secolo in Ungheria. Segretario del partito comunista imposto dai sovietici dopo la repressione dell’insurrezione del 1956 (ambigua, e non del tutto chiarita, fu la sua posizione in qui giorni), riuscì gradualmente a smarcarsi da Mosca e a imporre un “comunismo dal volto umano” o al “gulasch” (leggi: censura meno oppressiva, possibilità di viaggiare in occidente, un migliore approvvigionamento alimentare, caute aperture all’economia di mercato...) che indusse molti ungheresi a perdonargli il “peccato originale”. Ormai vecchio e malato, fu estromesso dal potere nel 1988 e morì l’anno dopo.

U come Ungheria

nuovi confini

G come Gulasch (Gulyas), un equivoco alimentare che resiste tenacemente: da molti – non ungheresi – ritenuto uno spezzatino (che nella cucina ungherese si chiama pörkölt) è in realtà una zuppa molto speziata (anche) a base di carne.

H come Horn Gyula, l’ultimo ministro degli esteri dell’era comunista, passato alla storia per la decisione di smantellare la “cortina di ferro” tra l’Austria e l’Ungheria, consentendo a migliaia di cittadini della Germania est, riparati in Ungheria, di fuggire nella Germania federale. Una decisione che segnò l’inizio della fine per la DDR. Dopo il “cambio di sistema” (rendszerváltás) fu tra i fondatori del nuovo partito socialista e guidò il paese (deluso dall’esordio non brillante della prima compagine di centro-destra) come primo ministro nella legislatura 1994-1998.

J come József (cognome) Attila (nome), poeta di culto in Ungheria, morto suicida a soli 32 anni nel 1937, dopo una vita di stenti e privazioni. Autore esistenzialista ma con una grande attenzione alle tematiche sociali. La poesia Tiszta szívvel (“Col cuore puro”) per i suoi toni nichilisti e antipatriottici gli valse l’espulsione dall’università di Szeged (che oggi gli è intitolata), oltre all’ostilità dell’intero arco politico: Non ho padre né madre/ né dio né patria/ né culla né sepolcro/ non ho baci né amore. Da tre giorni non mangio/ né molto né poco/ i miei vent’anni sono il potere/ li cedo al miglior offerente. Se nessuno li vuole/ se li prenda il diavolo./ Col cuore puro ruberò/ se necessario, ucciderò. Mi prenderanno e mi impiccheranno/ sarò coperto da terra benedetta/ e l’erba mortifera/ rivestirà il mio cuore meraviglioso.

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N come Nagy Imre, primo ministro ungherese, fautore di un comunismo riformatore. Dopo aver guidato l’esecutivo nel biennio1953-1955, nell’ottobre 1956 in piena destalinizzazione fu di nuovo chiamato a guidare il paese squassato dall’insurrezione di Budapest. Dopo qualche esitazione si allineò sulle posizioni antisovietiche dei rivoltosi e decise di far uscire l’Ungheria dal Patto di Varsavia. L’ingresso dei carri armati sovietici a Budapest, il 4 novembre, mise rapidamente fine all’insurrezione e segnò l’inizio di una lunga caccia alle streghe. Nagy, che si era rifugiato nell’ambasciata iugoslava, fu convinto a costituirsi dietro la promessa di un salvacondotto, ma venne invece ar-restato e trasferito in una località segreta, dove fu giustiziato nel 1958. Fu riabilitato nel 1989 nel corso di una cerimonia pubblica che richiamò una folla di oltre 300.000 persone.

U come Ungheria

L come Liszt Ferenc (o Franz) (1811-1886), il compositore delle Rapsodie ungheresi (la famiglia si trasferì a Vienna quando Ferenc aveva 11 anni e il suo ungherese rimase zoppicante per tutta la vita, dato consolante per noi che lo studiamo), e la piazza omonima (Liszt Ferenc tér) nel centro di Pest, brulicante di gente e di bar e ristoranti trendy (un po’ troppo per gli aficionados della prima ora che, pare, si sono trasferiti nelle sale da tè della piazza gemella, dedicata allo scrittore Jókai Mór, il “Manzoni magiaro”).

M come Márai Sándor (1900-1989) narratore nato a Kassa (oggi Košice, seconda città slovacca) e morto suicida negli Stati Uniti (dove si era autoesiliato dopo l’arrivo al potere dei comunisti) l’anno in cui cadde il muro di Berlino. Famoso in patria fino agli anni Quaranta poi completamente dimenticato, è ritornato in auge dopo la traduzione adelphiana delle Braci (curiosità: il titolo originale è A gyertyák csonkig égnek, “Le candele bruciano fino allo stoppino”). Oggi è onnipresente nelle librerie ungheresi con sempre nuovi titoli (ormai siamo alla raschiatura del barile).

O come Ó utca (Via Ó), la via (si trova a Budapest vicino all'opera) con il nome più breve del mondo (in ungherese il prefisso “Ó” significa antico, primigenio, come l’“ur” tedesco).

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R c o m e R u d a s ( f o t o g r a f i a i n http://www.vendegvaro.hu/31-1078) , il più bello dei tre complessi termali che i turchi hanno lasciato in eredità a Budapest (gli altri due sono il Rác e il Királyi). Cupola “sforacchiata” da cui fasci di luce naturale illuminano una piscina a pianta ottagonale (36°) al centro e quattro piccole vasche con acqua di temperatura variabile (da 28° a 42°) negli angoli. Tradizionalmente riservato a un pubblico maschile (gli altri bagni sono aperti a giorni alterni per uomini e donne) è attualmente in fase di restauro. Speriamo che i risultati non siano troppo “high tech”.

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T come Trianon (Trattato del), dal nome di una delle ville di Versailles dove furono firmati i trattati di pace alla fine della prima guerra mondiale. Una ferita aperta che brucia ancora (basta trascorrere un po’ di tempo in Ungheria, e possedere una discreta conoscenza della lingua, per rendersene conto): all’Ungheria furono tolti i due terzi dei territori che amministrava sotto l’Impero austro-ungarico e cinque milioni di magiarofoni restarono fuori dal nuovo Stato ungherese. Ancora oggi sono in vendita carte geografiche dell’Ungheria “mutilata” (mi sono chiesto più volte quali sarebbero le reazioni se una cosa analoga avvenisse in Germania).

S come S. Stefano re (Szent István Királyi), bisnipote di Árpád, cognato dell’imperatore Enrico II. Incoronato re il 25 dicembre dell’anno 1000 (con la benedizione del Papa Silvestro II e l’accordo dell’imperatore Ottone III), sconfisse uno dopo l’altro i riottosi principi magiari, che non volevano riconoscere la sua autorità, e, soprattutto, riuscì a fare dell’Ungheria un paese cristiano (ricorrendo spesso alla forza per far convertire i suoi sudditi), saldamente e definitivamente ancorato in Occidente.

Q come …non mi viene in mente niente per cui sostituisco la voce con M2 come Mohács (battaglia di) una delle grandi tragedie della storia ungherese (con Trianon, vedi, e la fallita insurrezione del 1956). La sconfitta delle truppe di re Lajos nel 1526 aprì la strada a oltre 150 anni di dominazione turca su gran parte dell’Ungheria, fino al 1686 quando le truppe asburgiche riconquistarono Buda (morale: se ne andarono i turchi ma si insediarono gli austriaci). Del secolo e mezzo di presenza ottomana restano a livello architettonico pochissime tracce (tre complessi termali e la tomba di Gül Baba a Budapest e alcuni edifici a Pécs e Szigetvár) e, a livello linguistico, nessuna (le parole di origine turca in ungherese risalgono a molti secoli prima).

P come Pogacsa (focaccia salata, e a volte speziata, aromatizzata alle patate, al formaggio, ecc; quella autentica si prepara con lo strutto. Per soddisfare la curiosità, almeno visiva, in attesa del prossimo viaggio in Ungheria http://pogatcha.fw.hu/), Palacsinta (la variante ungherese della crèpe, la più famosa porta il nome di Gundel, il grande cuoco magiaro fondatore del più noto, e caro, ristorante budapestino), Palinka (la grappa locale, ottime quelle di albicocca e prugna; non lesinare sul prezzo: le più economiche sono altamente tossiche, vere armi chimiche improprie) e Paprika.

U come Ungheria nuovi confini

U come Ungherese (lingua). Soprassedendo sulla ormai nota litania di quanto sia difficile e quanto sforzo costi impararla (in)decentemente, alcune informazioni sulla lingua magiara: appartiene alla famiglia ugrofinnica, all’interno della quale si distinguono due gruppi: uno comprendente ungherese, il vogulo e l’ostiaco e l’altro il finnico, l’estone, il lappone e un manipolo di lingue minori, molte delle quali estinte o in via di estinzione. Con il samoiedo questi due gruppi costituiscono la famiglia linguistica detta “uralica”. Gli studiosi ritengono infatti che questi popoli, insediati nella zona degli Urali, abbiano utilizzato fino al quarto millennio prima di Cristo una lingua comune che, verso il 3000 AC cominciò a differenziarsi in due gruppi, quello samoiedo e quello ugrofinnico. Nel secondo millennio AC, quindi, la dissoluzione della comunità ugrofinnica (gli antenati degli estoni e dei finlandesi emigrarono verso ovest mentre i magiari si spostarono a sud) segnò l’inizio di una differenziazione linguistica radicale (oggi, nonostante tratti grammaticali e un manipolo di parole comuni, finlandese (e estone) e ungherese non sono intercomprensibili). Tipologicamente l’ungherese appartiene al gruppo delle lingue agglutinanti, ovvero esprime le relazioni grammaticali mediante accumulo di affissi applicati alla radice (es., házamban ‘in casa mia’: ház ‘casa’ + (a)m ‘mia’ + ban ‘in, dentro’). Altre caratteristiche che differenziano l’ungherese dalle lingue indoeuropee sono l’assenza del genitivo, che si esprime utilizzando suffissi possessivi (la macchina di Giovanni = Giovanni autoja, ‘Giovanni macchina sua’), la mancanza del verbo avere (utilizza una forma simile al sum pro habeo del latino, qualcosa è a qualcuno) e l’armonia vocalica. Per quanto riguarda infine l’etimologia dei termini ‘ungherese’ e ‘magiaro’, il primo sembra derivi dal termine turco “Onogur” (“dieci frecce”), nome di un’alleanza di dieci tribù di cui i magiari facevano parte, mentre il secondo è una parola composta di origine ugrofinnica (mon, ‘uomo’ e er ‘parlare’). Il significato originario di magiari è quindi ‘parlanti’ e il verbo magyarazni significa ‘spiegare’.

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Z come ultima voce. Per chi volesse saperne di più consiglio la lettura di Die Ungarn: eine tausendjährige Geschichte dello storico ungherese, naturalizzato austriaco, Paul Lendvai, che esiste anche in traduzione inglese: The Hungarians: A Thousand Years of Victory in Defeat. Un libro informato, obiettivo e di agevole lettura.

V come Váci utca, la via pedonale di Budapest, già in epoca comunista vetrina del regime e oggi principale arteria turistica della città. Negozi e ristoranti sono da evitare ma la via presenta una sequenza notevole di bei palazzi dell’Ottocento. Quindi alzare gli occhi sopra McDonald’s, Benetton o le botteghe di artigianato ungherese (?) e godere dell’architettura. E come Vörösmarty tér, piazza Vörösmarty, anch’essa pedonale, con al centro un’imponente statua dell’omonimo poeta, da cui inizia la Váci utca, nonché punto di transito e smistamento del turismo budapestino. Da segnalare la più famosa pasticceria ungherese, Gerbaud, con notevoli arredi fin de siècle e prezzi ormai fuori controllo (per gli standard ungheresi, chiaro).

nuovi confini

U come Ungheria

Marco Belli

culturalia

Contribuisce a tale operazione il libro di Federico Faloppa che offre un’analisi intelligente e documentata del cammino di alcune parole che si sono prestate nei secoli alla diffusione di pregiudizi sociali o razzisti.

L’autore ricostruisce la storia di termini come ebreo, negro, zingaro nelle loro variazioni dialettali e linguistiche, delle loro trasformazioni legate ad eventi storici fornendo ricche citazioni, sia da fonti letterarie che dalla lingua parlata, spesso anche divertenti e poco note.

Lo studio del Faloppa intende concentrarsi su quei termini che sono stati utilizzati per stigmatizzare l’alterità, l’essere diversi e a cui, nel tempo, sono stati associati significati offensivi e spregiativi che li hanno fatti diventare archetipi negativi.

Il problema di partenza sembra, infatti, essere proprio quello della differenza e naturalmente, in primis, quello della differenza linguistica. Chi parla in modo diverso o incomprensibile, parla male, cioè ostrogoto, turco o arabo o ancora per “parlare in modo incomprensibile” in Abruzzo si dice sfrancesà o ‘ntodescà. La lingua madre sembra a molti l’unica vera lingua. Come ricorda Gian Luigi Beccaria nell’introduzione al saggio del Faloppa, padre Bouhours scrive nel 1616 che “i cinesi, e quasi tutti i popoli dell’Asia, cantano, i tedeschi ragliano, gli spagnoli declamano, gli italiani sospirano, gli inglesi fischiano. Non ci sono che i francesi che parlano”. Ma difficile da accettare non è solo colui che parla in un altro modo, ma anche e soprattutto colui che vive o si comporta in modo diverso o, il più delle volte, cui si attribuiscono arbitrariamente determinati comportamenti: fare l’indiano, fumare come un turco, essere uno zulù, fare i portoghesi, filarsela all’inglese (ma gli inglesi dicono to take French leave) o abitudini alimentari per cui i francesi diventano per gli

PAROLE CONTRO

Ne uccide più la lingua che la spada? Forse, se consideriamo l’importanza del linguaggio nei rapporti sociali in tutti i tempi e in tutti i luoghi.

Nel lungo e spesso infinito viaggio che compiono le parole il loro significato si modifica, si trasforma assorbendo gli umori d e l t e m p o , s i “ i n c r o s t a ” d i significati aggiuntivi, diventa la chiave di espress ioni id iomat iche, assume connotazioni talvolta mutevoli, talvolta coriacee che non solo danno voce a credenze e pregiudizi ma contribuiscono anche a crearne. Tale destino delle parole non è sempre ineluttabile perché per contrastarlo, ed evitare che la parola diventi un veicolo di idee razziste e pregiudizievoli, basta prendere coscienza delle implicazioni negative che un termine assume e liberarsi da alcuni automatismi.

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Un processo analogo è quello che vivono altre parole fortemente connotate: quelle che si riferiscono ai neri, agli infedeli (“Mamma li Turchi”!), ai meticci (bollati come bastardi) e agli zingari (nell’Ottocento, tanto per citare un esempio, lo Zingaro era il colera).

Il libro del Faloppa è quindi un invito a non cadere nella trappola di alcuni cliché lessicali. E’ importante, però, anche non cadere nell’eccesso opposto, quello di un eloquio esageratamente politically correct che, spinto all’estremo, impedisce di chiamare le cose con il loro nome e rischia di portare all’afasia o per lo meno al ridicolo.

Giulia Gigante

inglesi frogs e per gli americani dedonk (da dis donc), i tedeschi sono crucchi (dal croato kruh, pane) etc. Ma finché si è in Europa si tratta per lo più di stereotipi mentre le parole assumono significati più pesanti o discriminatori quando il diverso è “più diverso”.

Prendiamo, ad esempio, il termine ebreo il cui etimo non presenta alcuna connotazione negativa, secondo quanto risulta non solo dalla Bibbia (Genesi), ma anche da fonti egizie e mesopotamiche, ma rimanda all’idea dell’errare, del fuggire e dell’essere nomade. Con il tempo a questo termine, che dall’ebraico passò al greco e da quest’ultimo alle lingue romanze, se ne affianca un altro, di origine latina, judaeus (della tribù di Giuda) che si trasmette anch’esso alle lingue romanze nonché a quelle slave. Fin dalla fine del Duecento, entrambi i termini vengono identificati con la f igura dell’usuraio, dello strozzino (dimenticando che, spesso, gli ebrei lo erano diventati perché tutte le altre professioni erano state loro precluse) e quindi diventano veicolo di pregiudizio un po’ in tutte le lingue. Gli ebrei o giudei sono “ladri”, “truffatori”, “avari” e, addirittura, “senza cuore”. L’autore analizza le cause storiche e sociali e i complicati meccanismi che, grazie anche al massiccio contributo dei Padri della Chiesa e delle interpretazioni della Bibbia che vedevano negli ebrei dei “deicidi”, hanno portato alla nascita di tali stereotipi negativi. Ricostruisce la loro genesi e le loro metamorfosi attraverso lo studio delle varianti dialettali e linguistiche che si arricchiscono sempre di nuovi significati ma sempre in accezioni rigorosamente negative e diffamatorie.

In tale operazione vengono coinvolti anche tutta una serie di altri termini ad essi correlati in maniera diretta come ghetto, sinagoga o indiretta come sciamannato o marrano.

PAROLE CONTRO

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Il giro del mondo in 320 lingue

Nel lontano 1979 Luciano Canepari dava alla luce per i tipi di Einaudi quell’Introduzione alla Fonetica sulla quale hanno lavorato tutti gli studenti di lingue e/o traduzione in Italia preparandosi all’esame di Linguistica. Quel libro conteneva tutto quel che c’era da sapere allora sulla fonetica: dalla teoria generale alla sua applicazione su alcune lingue importanti, fino al lavoro fatto dalle diverse scuole fonetiche e fonologiche.

Naturalmente, già allora la personalità dell’autore si faceva sentire, segnalando che certi suoni finora descritti in un certo modo erano in realtà prodotti più frequentemente in un altro, rilevando che in una lingua o nell’altra le cose stavano diversamente da quel che asserivano anche i più noti manuali specifici, in una parola constatando convincentemente che l’Alfabeto fonetico internazionale (IPA) non era sufficiente per descrizioni veramente utili e particolareggiate della fonetica delle lingue e dialetti del mondo.

Sono passati ormai 25 anni, e nel frattempo Canepari, professore di fonetica all’università di Venezia, ha continuato a pubblicare affinando sempre più i propri strumenti di lavoro, essenzialmente basati su un orecchio allenatissimo, su una certa refrattarietà a fidarsi anche delle macchine coi loro spettrogrammi, su un IPA espanso, divenuto canIPA con numerosi simboli nuovi, su una capacità pazientemente acquisita di impaginare i propri testi e trasformarli in pdf da consegnare in un pacchetto chiuso agli editori, a scanso di problemi in tipografia nel gestire documenti formati da cinque o sei diversi font.

E così, la bibliografia del nostro è sempre più nutrita: Italiano standard e pronunce regionali 1980, Phonetic Notation/La notazione

fonetica (ISPR) 1983, L’intonazione - Linguistica e paralinguistica 1985, Manuale di Pronuncia italiana (MaPI) 1992, Dizionario di Pronuncia italiana (DiPI) 1999.

A fine 2003 sono usciti presso l’editore m o n a c e n s e L i n c o m ( h t t p : / / h o m e . t -

o n l i n e . d e / h o m e / L I N C O M . E U R O P A / h o m e p a g e . h t m )

due volumi gemelli, intitolati Manuale di fonetica (MaF) e Manuale di pronuncia (MaP), di cui uscirà quest’anno l’edizione in inglese con esempi studiati apposta per i lettori anglofoni. Il MaF espone, in 249 pagine, i risultati di tanti anni di ricerche e di scoperte: sono spiegati i simboli, la terminologia, l’articolazione dei suoni, le sillabe, l’accento, l’intonazione. Inizia poi una lunga rassegna di 320 fra dialetti d’Italia e lingue d’Europa e del mondo, col bolognese e l’alsaziano, il bretone e il catalano, il danese e il greco, l’ebraico, il nahuatl, il birmano, il pitjantjatjara ecc., tutti esposti in brevi trattazioni formate essenzialmente da un quadrilatero per mostrare i fonemi vocalici e le rispettive articolazioni, uno schema per le consonanti, e infine una specie di spartito (in realtà “tonogramma”) per l’intonazione di ciascuna lingua.

Una volta compresi la struttura generale del quadrilatero, dello schema e del tonogramma, il lettore si accorge con sorpresa che tutte quelle lingue gli parlano, anche senza che ne abbia mai sentita la stragrande maggioranza: ridotte così su

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carta, in una prospettiva chiara che facilita i confronti, sembrano anche fare meno paura allo studente, e obbligano a sfatare un sacco di miti come l’impronunciabilità, la possibilità di apprendere determinati suoni “solo dalla viva voce dell’insegnante” ecc.

E comincia a farsi spazio una considerazione: la profonda uguaglianza fra tutti gli esseri umani che, pur nella loro grande e ricca varietà e diversità, hanno tutti bisogno di comunicare, e lo fanno tutti ricorrendo agli stessi meccanismi. Si tratta naturalmente di una gamma di possibilità vastissima, di cui le rispettive lingue sfruttano solo una parte, ed è questa particolare combinazione di tratti che rende unica e riconoscibile ciascuna lingua, non un supposto “genio della nazione” che causerebbe l’intraducibilità da una lingua all’altra. Un dibattito, questo della traducibilità, che anche noi conosciamo bene, miti compresi.

L’essere riuscito a mettere su carta le caratteristiche di ciascuna lingua, in un certo senso ad addomesticarle, consente a Canepari di muoversi molto a suo agio nei fatti linguistici, al punto che l’autore ha inserito nelle brevi descrizioni del MaF anche la fonetica, tonogramma compreso, di 72 lingue morte. Come scrive lui stesso: “La ricostruzione linguistica, se condotta con strumenti adeguati, non si limita al lessico e alla morfosintassi: l’esperienza diretta, fonologica e fonetica rigorosa, sugli svariati idiomi vivi, trattati in questo manuale, permette senz’altro anche la formulazione delle fonosintesi di queste altre lingue, basate sui lavori degli esperti.

Il giro del mondo in 320 lingue

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Sono stati filtrati, però, attraverso un modo di ‘vedere’ i sistemi fonici veramente ‘dall’interno’, rivivendoli direttamente e con partecipazione, invece di considerarli semplicemente a tavolino, e più per obbligo che per piacere e divertimento”. Comincia così una lunga carrellata, col latino arcaico, classico e imperiale, il greco antico, l’etrusco, l’osco, lo spagnolo antico, il mozarabico, il protoceltico, il gallico, l’Old e il Middle English, ecc. Il giro del mondo diventa viaggio nel tempo, e il tutto resta sempre molto credibile.

Il secondo volume, il MaP, contiene la descrizione particolareggiatissima, non più dunque limitata ai soli schemi del MaF, di italiano, inglese, francese, tedesco, spagnolo, portoghese, russo, arabo, hindi, cinese, giapponese ed esperanto. Dell’inglese sono date le varianti britannica, statunitense, canadese, australiana e cockney, nonché la pronuncia “internazionale” consigliata agli studenti stranieri. E non finisce qui: da varie anticipazioni e allusioni presenti nei due libri, sappiamo che sono in preparazione vari studi monografici su tutte queste lingue, in un viaggio questa volta in un’altra dimensione: col raffinarsi della ricerca, presto potremo entrare nell’infinitamente piccolo. Per il piacere infinitamente grande di tutti gli appassionati della fonetica…

Daniele Vitali